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I nuovi business model “figli” della digitalizzazione

Sono molteplici le forme e gli impatti che può avere la “disruption”, termine un po’ abusato che denota gli stravolgimenti nell’intera economia globale e nella vita delle imprese provocati dalla diffusione, sempre più veloce ed estesa, delle tecnologie digitali. L’analisi di Umberto Bertelè fa il punto della trasformazione in atto, focalizzando alcuni temi di particolare attualità e gli esempi più significativi, nei settori della fotografia, dell’editoria, della musica, del retail, dei pc e dell’auto

Pubblicato il 30 Mag 2017

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Questo articolo di Umberto Bertelè prende lo spunto dalla relazione che ha tenuto al Politecnico il 29 marzo, in occasione dell’incontro (con lo stesso titolo) per la presentazione della nuova edizione del suo libro “Strategia”, focalizzata sul tema della digitalizzazione. Un incontro organizzato dagli Osservatori Digital Innovation, che ha visto la partecipazione – oltre che di Ferruccio Resta, Rettore del Politecnico e di Enrico Sassoon (Direttore di Harvard Business Review Italia) quale moderatore – di docenti che spesso appaiono anche su Digital4Executive: Vittorio Chiesa, Giuliano Noci e Andrea Rangone (CEO di Digital 360), professori ordinari di Strategy & Marketing, e Alessandro Perego, nuovo Direttore del Dipartimento di Ingegneria Gestionale. Data l’ampiezza della materia, l’autore ha scelto di focalizzare l’attenzione – trattandoli come tasselli di un ideale mosaico – su alcuni concetti di fondo e su alcuni temi di particolare attualità.

Che cos’è il “business model” di un’impresa

Anche se può apparire paradossale, la forza di una definizione sta spesso nella sua indefinitezza. Sono i concetti fuzzy sfumati nei loro confini – quelli che usiamo di più, perché ci permettono di dare un senso alle comunanze senza farci distogliere dalle differenze che un’analisi più puntuale metterebbe in luce. La nozione di business model, largamente diffusa, rientra in questa categoria: non ne esiste una definizione precisa condivisa, per cui fornisco la mia (anch’essa peraltro fuzzy). Il business model di un’impresa racconta:

  • quale sia il suo output, ovvero i prodotti – beni (materiali e/o immateriali) e/o servizi – che essa mette sul mercato,
  • a chi siano destinati tali prodotti e per soddisfare quali bisogni,
  • attraverso quali canali essi arrivino ai destinatari tari e se siano i destinatari o altri soggetti a pagarli,
  • quale parte dei prodotti sia fatta «in casa» e quale acquistata o commissionata in outsourcing,
  • in quali aree geopolitiche l’impresa venda o produca o si rifornisca,
  • quali siano le potenziali sinergie nel caso di portafoglio composito,
  • su quali differenziali – di costo piuttosto che di attrattività – si basi l’impresa per conquistare quote di mercato nelle aree di business in cui compete e per creare valore.

Se ci si pone nell’ottica speculare della competizione, ovvero si guarda a cosa avviene in una particolare area di business (concetto anch’esso fuzzy), le imprese – o le loro specifiche unità di business – che competono in tale area possono:

  • soddisfare i bisogni/clienti con prodotti simili oppure con prodotti (anche molto diversi fra loro) in grado però di offrire funzionalità simili;
  • avere business model con configurazioni simili oppure diverse fra loro.

L’ebook è molto diverso dal libro cartaceo, ma soddisfa bisogni in larga misura sovrapposti. Il libro cartaceo acquistato attraverso Amazon è identico a quello acquistato in libreria, così come identica è la casa editrice del libro, ma diverse sono le filiere distributive e diversi i soggetti – con business model molto “distanti” fra loro – in esse operanti.
Lo streaming di Spotify o di Apple Music è molto diverso dai CD o dai dischi in vinile, è diverso anche dal download (un business model pure digitale che tanto successo aveva avuto con il lancio da parte di Apple dell’iPod e di iTunes), ma – analogamente a essi e a differenza ad esempio dei canali radiofonici musicali – offre la possibilità di ascoltare musica scegliendola a piacimento. La scelta del business model ha una grande rilevanza, ma altrettanto rilevante – ai fini della competitività – è la fase di execution, di implementazione e di conduzione cioè del modello stesso. Così come possono essere determinanti altri aspetti, come ad esempio in molti casi la scala.

Disruption dei business model o Disruption delle imprese?

Il termine disruption ha avuto molto successo in questi anni per denotare gli stravolgimenti – nell’organizzazione dell’economia e nella vita delle imprese – provocati dal successo dei business model “figli” della digitalizzazione, del processo cioè di diffusione sempre più veloce ed estesa delle tecnologie digitali. Anche se nei casi che vengono più spesso citati la disruption dei business model esistenti e quella delle imprese esistenti (incumbent) coincidono, i due fenomeni non devono essere assolutamente confusi. Ci si deve cioè porre separatamente le due domande:

  • i nuovi business model “figli” della digitalizzazione sostituiscono quelli esistenti o convivono con essi? La disruption riguarda l’intera filiera o si concentra su specifici tratti?
  • l’entrata in gioco dei nuovi business model comporta l’uscita dal mercato delle imprese incumbent a favore di nuove entranti? Se sì, perché?

L’attenzione su quanto accade nella filiera (e non solo nella specifica area di business) è importante, perché quasi sempre le innovazioni di matrice digitale vanno a toccare, in misura più o meno consistente, i rapporti fra i diversi soggetti lungo le filiere: anche quando, come nello smart manufacturing (robotica avanzata, tecnologie additive ecc.), esse sembrano confinate in ambiti molto più puntuali e ristretti.

La musica: dal vinile allo streaming

Nel caso ad esempio della musica visto in precedenza, la grande vittima del successo della distribuzione “via Internet” (iniziata con i siti-pirata) è stata la distribuzione “fisica”, all’ingrosso e attraverso i negozi specializzati (drasticamente ridottisi). Sono sopravvissute invece le case produttrici, seppur con un fatturato complessivo che negli US supera di poco la metà di quello del periodo d’oro antecedente l’entrata in gioco di Internet. Esse sono sopravvissute, dopo il prevedibile fallimento del tentativo di creare siti congiunti fra imprese concorrenti (quali Pressplay lanciato da Universal and Sony Music per contrastare Napster), con la scelta da manuale – “non digitale” – di aumentare il livello di concentrazione, passando da 6 “grandi” a 3 (Universal, Warner Music e Sony Music), per ridurre drasticamente i costi e accrescere il potere contrattuale: una scelta al momento vincente, data anche la crescita (perlomeno temporanea) della concorrenza fra distributori.

La fotografia: dalla pellicola allo smartphone

Illuminante il caso della fotografia, ove (analogamente a quanto accaduto per la musica) si è avuta una doppia transizione, a distanza di qualche anno una dall’altra: la fotografia “digitale” ha travolto quella “chimica”, che era stata dominante in tutto il ‘900; gli smartphone, offrendo la possibilità di fotografare “a costo zero” e di condividere le foto con estrema facilità, hanno già provocato una riduzione drammatica delle vendite di macchine fotografiche compatte (nonché dei negozi che le vendevano) e l’effetto di sostituzione potrebbe estendersi ulteriormente a causa dei continui miglioramenti qualitativi che i produttori di smartphone introducono, non per rubare mercato a Canon e Nikon ma per aumentare la loro attrattività rispetto ai competitori diretti.

È illuminante soprattutto il caso di Kodak (che ora “vale” meno di mezzo miliardo di dollari dopo essere stata per circa un secolo una delle principali società del NYSE), vittima non tanto di attacchi da parte di nuove imprese innovative miranti a rubarle la leadership, quanto della sparizione – nel nuovo contesto venutosi a creare con la fotografia digitale – di quella che era la sua massima fonte di differenziazione e di creazione del valore, ovvero della pellicola. Kodak, che nell’era “chimica” era presente in tutta la filiera (dalle macchine fotografiche compatte alla carta per la stampa) e che disponeva di numerosi brevetti nell’ambito “digitale”, non fu spiazzata dai nuovi entranti, ma perse – con il cambiamento del business model – il suo differenziale di attrattività; nessun’altra impresa riuscì peraltro a raggiungere, nel nuovo contesto, il livello di profittabilità che essa aveva in precedenza e il grande vincitore fu il consumatore finale.

Vi è un altro fenomeno interessante da sottolineare, il manifestarsi – nella (seconda) transizione che portò all’uso sempre più diffuso dello smartphone come macchina fotografica – di quelli che potremmo definire danni collaterali non intenzionali: Canon e Nikon rimasero vittime di una  guerra interna fra produttori di smartphone, così come (con un paragone un po’ ardito) gli editori dei giornali continuano a perdere fatturato pubblicitario a favore di Google e Facebook, che non sono loro concorrenti diretti ma che hanno nel digital advertising un caposaldo dei loro business model, basati sull’erogazione gratuita di servizi (search e social network rispettivamente).

Un output simile o del tutto originale?

Ipersemplificando la realtà, si devono innanzitutto distinguere i casi in cui l’output del business model innovativo offra:

1. funzionalità prima inesistenti, oppure

2. funzionalità simili a quelle dei business model esistenti. Se i business model innovativi offrono funzionalità prima inesistenti, come storicamente accaduto per il search e per i social network, non esistono vittime dirette immediatamente individuabili.

Ci possono essere effetti sostitutivi più lontani, quali il calo ad esempio degli ascolti televisivi a causa del maggior tempo passato sui social. Ci possono essere come visto danni collaterali inintenzionali, quali quelli inferti dal digital advertising agli editori di giornali. E va comunque richiamato il fatto ovvio che non basta offrire funzionalità prima inesistenti per avere successo, come il caso Google glass chiaramente dimostra. Se i business model innovativi offrono funzionalità simili, ed è il caso di gran lunga più frequente, essi devono ovviamente promettere di essere – come precondizione per la loro stessa nascita – competitivi rispetto ai modelli esistenti in termini di attrattività e/o di costi.

Una configurazione simile o radicalmente diversa?

Nel caso di funzionalità dell’output simili si possono evidenziare tre situazioni diverse, ancorché con confini fuzzy fra loro, in base al grado di “vicinanza” fra le configurazioni dei business model:

2.1 la configurazione del business model innovativo non differisce in misura sostanziale da quella dell’esistente;

2.2 la configurazione del business model innovativo si differenzia rispetto a quella dell’esistente per il ruolo sensibilmente più rilevante di alcuni componenti (quali la componentistica elettronica nell’auto);

2.3 la configurazione del business model innovativo è radicalmente diversa rispetto a quella dell’esistente (come nel caso dell’eCommerce rispetto alla distribuzione tradizionale).

Se le differenze non sono forti (caso 2.1), cioè quando la configurazione del business model innovativo è simile, è molto probabile che siano le imprese incumbent le protagoniste dell’innovazione, che siano esse a introdurre modifiche incrementali nei modelli esistenti e a sfruttare le potenzialità offerte dall’innovazione per migliorare la loro posizione competitiva. È il tipico caso della digital transformation. Mentre è probabile che non si creino opportunità significative per nuove entrate, se non in assenza di reattività da parte delle imprese incumbent.

Molto diversa la situazione in presenza di differenze radicali (caso 2.3), quando la configurazione del business model innovativo è radicalmente diversa. Sempre ipersemplificando, si possono evidenziare due possibili scenari:

2.3.1 il business model innovativo è nettamente vincente rispetto all’esistente, per la maggiore attrattività e/o il minore costo;

2.3.2 il business model innovativo è molto competitivo rispetto all’esistente, ma la probabilità che essi siano destinati a convivere è elevata.

Nel primo scenario (caso 2.3.1) la probabilità di disruption delle imprese (o delle loro specifiche unità di business) incumbent è molto alta. Sia perché esse, per convertirsi al nuovo business model, devono affrontare costi di restructuring molto elevati (principalmente per la liquidazione delle risorse umane ridondanti e per il write-off delle risorse materiali e immateriali divenute inutili) e devono rinnegare la cultura d’impresa che è stata alla base del loro passato successo. Sia perché, come visto per Kodak, esse perdono nel nuovo contesto competitivo molti dei punti di forza e di differenziazione che avevano nel precedente.

Nel secondo scenario (caso 2.3.2), invece, i nuovi entranti – startup o imprese consolidate provenienti da altri comparti – e gli incumbent si battono fra loro, con modalità e dinamiche molto variabili nei diversi casi. Più il business model innovativo risulta competitivo rispetto all’esistente, più grande deve essere lo sforzo di ristrutturazione degli incumbent per non perdere profittabilità e valore. La ristrutturazione può avvenire sostanzialmente attraverso due vie o una loro combinazione. Gli incumbent possono rispondere in maniera classica, puntando a una riduzione dei costi e a un rafforzamento della posizione contrattuale attraverso un aumento del livello di concentrazione (con il ricorso ad acquisizioni o fusioni) e/o una rigida politica di controllo dei costi: come visto per i produttori di musica. Oppure possono cercare di introdurre modelli ibridi, con una componente digitale che si affianca e si integra con quella più tradizionale.

L’evoluzione del retail: Walmart, Amazon, Zara, Lvmh e Kering

È il caso ad esempio di Walmart, la più grande impresa di distribuzione del mondo (con oltre 2 milioni di addetti), che sta faticosamente rispondendo all’attacco di Amazon con l’introduzione di una componente di eCommerce al suo interno, frutto anche dell’acquisizione di una startup. È il caso di Zara, che – non toccata sinora (a differenza ad esempio di H&M) dagli attacchi dell’eCommerce – sta comunque ristrutturandosi cautelativamente, aumentando la dimensione media dei suoi punti di vendita (attraverso la chiusura dei piccoli e l’apertura di nuove grandi superfici) e creando una continuità fra i servizi offerti nei punti di vendita stessi e online. È il caso delle grandi case di moda, a partire da LVMH e Kering, che – tenendo anche conto delle preferenze delle nuove generazioni ad acquistare online – hanno drasticamente ridotto le aperture di nuovi punti di vendita fisici e hanno viceversa potenziato quelli virtuali. È importante notare come la creazione di modelli ibridi, a prima vista la risposta più naturale per un incumbent, si scontri spesso con il rischio di un aumento dei costi. Nel caso di H&M, ad esempio, il mercato finanziario ritiene che l’affiancamento di una componente online ridurrebbe la possibile caduta delle vendite, ma peserebbe negativamente sul margine di profittabilità. Un fenomeno simile si ha per molti editori tradizionali di giornali, che hanno investito per accrescere il numero di copie vendute online senza però tagliare in misura adeguata i costi di produzione e vendita delle copie cartacee (in continuo drastico calo). Non sono solo gli incumbent ad adottare i modelli ibridi, ma talora lo fanno anche le imprese nativamente digitali. Lo sta facendo Amazon, per ora su piccola scala, aprendo ad esempio librerie fisiche concepite in modo innovativo rispetto alle tradizionali. Lo sta facendo su scala molto più ampia Alibaba, che ha speso miliardi di dollari per l’acquisizione di alcune catene tradizionali (ad esempio di prodotti elettronici) e che ha di recente stretto un accordo con uno dei principali distributori cinesi per potenziare la sua offerta di prodotti freschi “entro un’ora”.

Quando cambia la rilevanza dei componenti: i casi dei pc e dell’auto

L’esempio storico più famoso (caso 2.2) è quello dei PC, ove i microprocessori e i sistemi operativi divennero sempre più importanti nella determinazione delle performance dei PC stessi e come tali furono sempre più percepiti anche dagli acquirenti finali. Nulla di particolare sarebbe successo se Ibm, che all’epoca dominava il mercato dei PC, fosse stata integrata verticalmente o se ci fosse stata un’offerta molto concorrenziale di microprocessori e sistemi operativi. Ibm si ritrovò progressivamente invece ad avere due fornitori (che aveva fatto crescere “sotto le sue ali”) quasi monopolisti, Intel e Microsoft, che per giunta mettevano i loro prodotti a disposizione anche dei suoi competitori diretti (quali Compaq). I profitti si spostarono progressivamente verso monte e a un certo momento Ibm preferì vendere l’unità di business a Lenovo. Il caso attualmente più importante è probabilmente quello dell’industria automobilistica, che vede il peso della componentistica elettronica in continuo aumento – a livello sia di costi sia di attrattività esercitata nei riguardi dei clienti finali – e che teme un ulteriore aumento di tale rilevanza nel caso di affermazione della selfdriving car.

È per questo motivo che molte delle principali imprese del comparto stanno cercando di integrarsi a monte, aprendo centri di ricerca nella Silicon Valley o acquisendo startup ivi operanti. Il timore è che imprese digitali come Alphabet (che ha avuto una lunga sperimentazione della sua Google Car) o Apple o grandi componentisti come Bosch mettano a punto sistemi di guida con prestazioni superiori, obbligando le imprese automobilistiche ad acquistarli. Le case automobilistiche non sarebbero disrupted, ma una quota importante dei loro profitti e del loro valore si sposterebbe verso monte.

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