@umbertobertele
Umberto Bertelè è autore di “Strategia”, edizioni Egea, 2013. Ha scritto anche la prefazione dell’edizione italiana di “Big Bang Disruption” di Larry Downes e Paul F. Nunes, edizioni Egea, 2014.
Il 23 febbraio 2015 Apple valeva in Borsa 775 miliardi di dollari, la cifra più alta di tutti i tempi, e sembrava proiettata verso quota 1000. Il 30 gennaio 2016 (mentre scrivo), a poco meno di un anno di distanza, ne vale solo 521. È una caduta di circa 250 miliardi, solo in parte riconducibile ai ricchi dividendi e ai buyback: elevatissima, se si pensa che i primi 7 gruppi per capitalizzazione italiani (Eni, Intesa Sanpaolo, Enel, Luxottica, Unicredit, Generali e Telecom Italia) valgono complessivamente 240 miliardi; a prima vista sorprendente, se si pensa che l’utile trimestrale appena comunicato è il più elevato della storia della società.
Apple non è però nuova alle cadute. Solo 3 anni fa il suo valore era passato dai 630 miliardi di settembre 2012 ai 370 del giugno successivo, con un salto pari in termini assoluti ma più cospicuo in percentuale. Per poi iniziare il ridecollo e crescere in diciotto mesi di 400 miliardi, sino a quota 775.
Parlare di montagne russe non è esagerato. Come può spiegarsi una volatilità così elevata, per una società che ha costantemente incrementato le sue performance sino agli attuali 235 miliardi di ricavi e quasi 54 di utile? Come può spiegarsi che la Borsa abbia quasi allineato la valutazione di Google (ora Alphabet) a quella di Apple, portandola a oltre 500 miliardi, 35 volte l’utile netto (15 miliardi circa) contro il multiplo 10 usato per Apple? E che lo stesso multiplo 35 sia applicato a Microsoft, non certo una start-up, nell’attribuirle un valore di 415 miliardi a fronte di 11 di utile?
È la paura per il futuro che periodicamente sembra ossessionare il mercato nel giudicare Apple.
La paura fu il fattore scatenante della caduta di tre anni fa: paura, a quasi un anno dalla scomparsa di Steve Jobs, che fosse irriproducibile il modello di crescita basato sui breakthrough (iPod e iTunes, iPhone, iPad) di cui era stato l’artefice assoluto. La risposta di Tim Cook, suo successore, fu quella di cambiare modello: non puntare su nuovi breakthrough (anche se forse le attese su Apple Watch erano maggiori), ma estrarre il massimo valore possibile dall’esistente, anche sfruttando la crescita vertiginosa della domanda globale di smartphone (1,2 miliardi di esemplari nel 2014). Egli fece tutto ciò che un manuale di marketing consiglia: tinse di lusso l’immagine, per mantenere premi di prezzo elevati; lavorò sull’iPhone, ingrandendone sull’onda di Samsung lo schermo e introducendo funzionalità quali i pagamenti; entrò con forza nel mercato cinese, conquistandone la fascia alta. Con la contropartita però che la società venne sempre più a identificarsi con il prodotto che le garantiva i maggiori profitti e due terzi dei ricavi, l’iPhone. Per cui, all’apparire dei primi segni di rallentamento della domanda, il titolo iniziò a scendere sino a precipitare ai livelli attuali.
Ha ragione Apple nel rifiutare l’etichetta di società hardware, nell’esaltare le sue potenzialità di espandersi nei servizi sfruttando l’enorme parco installato (un miliardo circa di device fra iPhone, iPad e Mac) e nell’evidenziare l’esistenza di una riserva di caccia quasi inesplorata quale l’India? O ha ragione il mercato, nel preoccuparsi che – in assenza di novità di rilievo – anche i premi di prezzo dell’iPhone siano destinati a ridimensionarsi, in un mercato che sembra essere (almeno nella fascia alta) sempre più di sostituzione?
Solo il futuro darà una risposta. Non credo che le occasioni di nuovi business mancheranno, perchè il processo di digitalizzazione dell’economia – come si vede dai fermenti in atto nell’auto, nella finanza e nel manufacturing – è tutt’altro che concluso.
Non è certa però la coincidenza fra i protagonisti di oggi e quelli di domani, come le storie di Nokia e BlackBerry insegnano. E una riflessione va fatta anche sui danni che gli utili e le capitalizzazioni dei big del digitale – a partire da Apple – potrebbero soffrire, se la loro capacità di eludere il fisco dovesse svanire.
*A due giorni dalla scrittura dell’articolo, nell’after-hours trading del 1 febbraio 2016, si è verificato il sorpasso. Alphabet-Google, a seguito dei buoni risultati trimestrali comunicati, ha strappato – almeno temporaneamente – a Apple la corona di società a massima capitalizzazione del mondo.