Oggi ci sono 3 milioni e mezzo di persone online, a fronte di oltre 1 trilione di pagine web, raddoppiate negli ultimi due anni. Ognuno di noi vede ogni mese circa 3mila pagine web, quindi 93 al giorno, sulle quali sono presenti in media ben 500 messaggi pubblicitari. I numeri li “snocciola” un esperto di Internet, Alex Petrilli, un passato in Facebook e IBM e oggi Sales Training Manager EMEA dello specialista di audience analytics Quantcast. Si può, quindi, parlare di un vero e proprio affollamento del web e il CTR (click through rate*) già da tempo non è più una metrica corretta per la valutazione dell’efficacia delle campagne di marketing online. «In Italia – esordisce Petrilli – il CTR medio è pari allo 0,08% e diminuisce di anno in anno. Questo cosa significa? Vuol dire che se faccio vedere 100mila volte il mio messaggio pubblicitario, in media solo 80 persone lo cliccheranno. I click, poi, non sono necessariamente conversioni, per cui non è detto che chi entra a dare un’occhiata all’annuncio poi compia un’azione efficace tipo compilare un form o iscriversi a una newsletter, fornendoci il proprio nominativo».
Il tramonto delle impression
Nell’approccio tradizionale all’online advertising, le aziende acquistano un certo numero (generalmente
blocchi di migliaia o milioni) di impression (la visualizzazione di una pubblicità online, tipicamente un banner), per un tempo variabile tra i 3 e i 6 mesi. Ma non è detto (anzi, spesso è vero l’esatto contrario!), che le impression acquistate siano viste dalla target audience, ovvero dall’utente-tipo che i responsabili marketing dell’inserzionista hanno in mente per la propria campagna online.
Proprio dalla presa di coscienza di queste inefficienze nasce, nel 2009, un nuovo approccio alla compravendita degli spazi pubblicitari sul web, che sfrutta le analytics e i software di elaborazione dati in tempo reale. L’idea è di permettere alle aziende di far arrivare il proprio messaggio al giusto prospect (quello in linea con gli obiettivi di marketing) nel momento più propizio. Il programmatic, detto anche real-time o data-driven ADV permette di automatizzare le fasi di acquisto degli spazi pubblicitari all’interno dei media digitali, sfruttando sistemi per mettere in contatto la domanda e l’offerta all’interno di un moderno “mercato” virtuale chiamato Ad Exchange.
Le tre opzioni del programmatic ADV
Esistono tre diverse modalità nel data-driven advertising.
Aste (Realtime bidding, RTB)
Le RTB sono aste in tempo reale di spazi pubblicitari condotte in modo automatizzato da software, senza l’intervento umano. L’inserzionista compra “a scatola chiusa”, perché gli viene comunicata solo la categoria di siti sui quali apparirà il messaggio ADV, ma non il sito specifico. Le cosiddette “aste aperte” (open exchange) permettono a diversi inserzionisti di aggiudicarsi l’acquisto di pacchetti di spazi pubblicitari (inventory) all’interno dei siti web di una pluralità di media company attraverso un meccanismo di “rilancio” automatico delle offerte sino al limite massimo preimpostato da ciascun inserzionista.
Marketplace privati (PMP)
Sono aste automatizzate ma “chiuse”, alle quali si accede solo su invito, destinate a un pubblico selezionato di media company e inserzionisti “premium” (CocaCola, Nike…). In questo caso, il pacchetto pubblicitario è acquistato in modo trasparente perché il buyer sa esattamente su quale sito apparirà la sua pubblicità online.
Programmatic direct (one-to-one)
I software di programmatic permettono agli inserzionisti di acquistare un certo numero di impression “garantite”, in anticipo, su un certo sito Internet, per una specifica audience.
«I marketplace privati, spesso organizzati come aggregazioni e consorzi di inserzionisti che operano nello stesso settore merceologico, oggi pesano per il 30% delle aste degli spazi pubblicitari online – puntualizza Petrilli – e il loro valore è triplicato negli ultimi tre anni. La quota rimanente è appannaggio dell’open exchange».
Le audience analytics per definire la “silhouette” del target
«Il problema con Internet – tiene a sottolineare – è che io non so, come invece avviene per la TV e la radio, qual è il canale più letto di un portale e, soprattutto, qual è il canale o il sito più letto dalla mia target audience. Quindi diventa difficile per gli inserzionisti capire dove inserire la propria pubblicità. Posizionarla solo sulle home page non paga, perché spesso la prima pagina di un sito viene skippata in favore dei canali tematici d’interesse». L’alternativa più praticata è acquistare annunci sponsorizzati sui motori di ricerca ma, prosegue l’esperto, «le persone rimangono sui motori di ricerca solo il 3% del tempo speso sul web anche se la pubblicità del cosiddetto search cuba ancora oggi circa il 50% del totale degli investimenti online».
Come individuare il target
E allora come è possibile per le aziende capire “dove” andare a scovare il proprio cliente ideale? Servono indicazioni chiare e precise sul comportamento degli utenti sul web. Per comprendere meglio come gli internauti si spostano all’interno di un sito Internet esistono strumenti piuttosto efficaci, che sfruttano l’analisi combinata di pixel e cookie. Un pixel è una sorta di “campanello d’allarme” che viene posizionato all’interno di una pagina web. Ogni volta che un utente visita quella pagina genera una notifica sui suoi comportamenti di navigazione alla società che lo ha posizionato (Quantcast, per esempio, ne ha diversi milioni sui maggiori portali in tutto il mondo). Sulla base di queste notifiche – Quantcast attua le proprie rilevazioni, in media, tra le 400 e le 600 volte al mese – vengono estrapolate delle “audience analytics” che permettono di definire nuovi gruppi di utenti (cluster) per le campagne pubblicitarie, o anche di crearne di trasversali e impensati, grazie alla profilazione puntuale degli ID (l’utente unico del web, identificato dal suo indirizzo di collegamento). I cookie, invece, sono pezzi di codice che i web server usano per inserire informazioni sul browser utilizzato dall’internauta che permettono di “rintracciare” l’utente in tempi diversi e comprendere cosa ha fatto nel frattempo.
«Le audience analytics e il programmatic advertising sono un meccanismo vincente per entrambi gli attori coinvolti nel sistema – conclude Petrilli –. Per il publisher, perché grazie alle analitiche elaborate attraverso pixel e cookie riesce a essere meno generalista, più specializzato, arrivando a incrementare il CPM (il prezzo pagato dall’inserzionista per mille impression del messaggio pubblicitario – ndr) che, giusto per avere un’idea, per un sito come Repubblica.it è di 1 euro. Ma si tratta di una strategia vincente anche per l’inserzionista, che vedrà ridotto il proprio CPL (costo per lead – ndr), in virtù della garanzia di operare sempre sul media più in linea con la propria target audience».
*Si tratta di un rapporto (espresso in %) che indica la frequenza con cui le persone che vedono un annuncio ci cliccano sopra, la cui formula è click/impression x 100.