Dopo che è diventato pubblico l’esito largamente inatteso del “Brexit“, il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, moltissime analisi sui media hanno cercato di sviscerare i possibili impatti in tutti i campi. Pochi giorni fa su Agenda Digitale Stefano Robbi, CEO di NetStrategy, agenzia specializzata in Web Marketing e SEO (Search Engine Optimization), si è soffermato in particolare sulle possibili conseguenze sulle PMI italiane, individuandone sette tipologie.
Costi di import-export
Attualmente l’interscambio commerciale tra Italia e Regno Unito – che, lo ricordiamo, comprende Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda del Nord – vale 33 miliardi. Se il Regno Unito tornasse sotto la regolamentazione del WTO (World Trade Organisation), qualunque scambio con esso – in ingresso come in uscita – subirebbe la tassazione applicata ai rapporti economici con paesi extra-comunitari. Per le PMI che già intrattengono relazioni commerciali con realtà britanniche, il macro-svantaggio sarebbe quello di doversi accollare costi più alti – dazi doganali e specifiche imposte di frontiera – per ottenere i medesimi risultati. Da sottolineare è che questo vale sia per i canali tradizionali che per l’eCommerce.
Circolazione delle persone
Come accade per le merci o i servizi, anche per la circolazione delle persone esiste una differente normativa a seconda che si svolga tra paesi intra- o extra-comunitari. Al momento, ogni cittadino italiano può spostarsi a Manchester o a Liverpool munito solo di un valido documento d’identità; se il Regno Unito uscisse dalla UE, ciò non sarebbe più sufficiente. Lo stesso dicasi per i viaggi verso l’Italia di residenti in Inghilterra. Passaporto, visto e diversa documentazione sarebbero richiesti per turisti, studenti, ricercatori, imprenditori, professionisti. È comprensibile come questo avrebbe degli effetti a livello economico potenzialmente rilevanti per moltissime PMI.
Proprietà intellettuale
All’interno dell’Unione Europea vige un sistema unificato che regola la registrazione e la protezione di marchi, brevetti e copyright dei suoi stati membri. Molte aziende italiane hanno depositato il proprio brand a livello europeo e non mondiale. Ciascuna di esse dovrà valutare se l’eventuale distacco della Gran Bretagna dalla UE potrebbe comportare un rischio di proprietà intellettuale: il loro marchio continuerà infatti ad essere tutelato a livello europeo, ma i concorrenti con sede nel Regno Unito saranno liberi di “plagiarlo”. La soluzione sarebbe un copyright internazionale, che costituirebbe però un’ulteriore voce di spesa.
Sicurezza dei dati e cloud
Anche il trattamento e la conservazione dei dati personali sono normati da una legislazione europea organica, stabile e coerente con le politiche comunitarie perseguite negli ultimi anni. Le PMI che, ad esempio, tengono dati ed informazioni riservate in ambienti di cloud localizzati nel Regno Unito dovranno considerare che in un prossimo futuro questi potrebbero non essere più soggetti alle stesse leggi vigenti in Italia, ma a una disciplina elaborata autonomamente dal legislatore britannico.
Concorrenza dal Regno Unito
L’eventuale aumento degli oneri nei rapporti commerciali con le realtà britanniche presenterebbe anche un positivo rovescio della medaglia per le imprese italiane. Le difficoltà nei rapporti con l’Inghilterra sarebbero le medesime per le altre aziende dell’UE. Ma nel caso di concorrenza con un’impresa britannica su un cliente o potenziale cliente tedesco, francese o spagnolo le PMI del nostro paese avrebbero il vantaggio di essere all’interno del MEC.
Pressione fiscale
L’Unione Europea, come ogni istituzione, ha bisogno di fondi. Per prendervi parte, ogni paese è chiamato a versare una somma di denaro nelle casse comunitarie. L’ammontare di tale quota viene stabilita in funzione proporzionale al GDP o al PIL di ogni singolo stato: assieme a Germania e Francia, la Gran Bretagna è tra i paesi con il PIL più alto e, quindi, contribuiva in misura rilevante al finanziamento della UE. Nel caso in cui l’apporto economico del Regno Unito venisse a mancare, la sua quota spettante dovrà essere ripartita – sempre in misura proporzionale – sugli altri paesi. È chiaro come questo graverà in percentuale maggiore su Germania e Francia, ma in una certa misura influirà anche sull’Italia, cosa che potrebbe tradursi almeno in parte in una pressione fiscale maggiore sulle aziende.
Investimenti esteri
Londra è da tempo riconosciuta come capitale europea dell’innovazione, catalizzatrice di ingenti investimenti per start-up, progetti di ricerca e aziende innovatrici
in diversi ambiti. Uscendo dall’Unione Europea, la capitale inglese lascerebbe un posto vacante come fulcro degli investimenti della UE. Ciò non significa che Londra non sarà più una culla per l’innovazione e l’interscambio culturale, però lascerà maggiore spazio di affermazione nel mercato unico ad altre città: Parigi, Dublino, Francoforte, ma anche Milano. Già sede dell’Expo e ricca di realtà di respiro internazionale, se aiutata da una politica dello Stato pensata per attrarre IDE potrebbe assurgere a nuovi onori e traguardi economici.
L’eventuale conferma dell’uscita del Regno Unito dalla UE comporterebbe in conclusione pro, contro e un inevitabile tempo di adattamento ai nuovi equilibri. Nello specifico delle PMI italiane, quelle penalizzate non saranno solo quelle che commerciano prodotti fisici con la Gran Bretagna. Come abbiamo visto, oltre all’import e all’export ci saranno ripercussioni dirette anche sui fronti della proprietà intellettuale, della sicurezza dei dati e soprattutto nella mobilità dei lavoratori che intendono recarsi oltre la Manica o rientrare nell’Unione Europea.
A fronte di tutto questo, però, le aziende comunitarie dovranno fronteggiare una minor concorrenza nel Mercato Unico, poiché quelle britanniche saranno penalizzate da dazi e rallentate da eventuali limitazioni giuridiche. Infine la Brexit potrebbe comportare un’auspicabile ridistribuzione degli investimenti esteri che da Londra potrebbero dirigersi verso le altre principali città comunitarie.