I brand che hanno più successo? Quelli che si appoggiano al passato per vendere nel presente e, più in generale, quelli che riescono a racchiudere in un prodotto o in un servizio una vera e propria “esperienza”. A sostenerlo è il guru del neuromarketing Martin Lindstrom, che spiega in questo video tratto da un intervento al World Business Forum (WOBI) come i colossi del food&beverage Danone e Nestlé siano riusciti a entrare nei meandri più reconditi del nostro subconscio, sollecitando i ricordi della nostra infanzia o instillandoci il desiderio di appartenere a una élite, a un club esclusivo, per invogliarci all’acquisto. Danese, classe 1970, Lindstrom è uno dei maggiori esperti mondiali delle tecniche di creazione di brand di successo ed è stato consulente di Coca-Cola, Nestlé e Red Bull. È anche noto per essere uno dei pionieri del neuromarketing, disciplina che fonde marketing tradizionale, psicologia e medicina, con l’obiettivo di comprendere (e influenzare) il processo che porta alla decisione di acquistare un prodotto specifico o una certa marca. Scopo di questa dottrina, infatti, è scansionare la fisiologia e la psiche umana per capire cosa succede nel cervello dei soggetti che vengono sottoposti a messaggi e stimoli tesi a generare emozioni positive e ricordi piacevoli, correlando queste emozioni a un prodotto con il fine di scatenare in loro un “impulso” ad acquistarlo. E si tratta di una scienza infallibile, stando all’esperto, che cita alcuni casi di successo planetari.
I bei tempi andati
La nostalgia è un aspetto importantissimo della nostra vita quotidiana. Basti pensare che il 65% circa delle marche che acquistiamo quotidianamente per
noi e per i nostri figli, secondo Lindstrom, è un’eco, una rivisitazione delle scelte fatte dai nostri genitori quando eravamo bambini. C’è un fenomeno scientifico molto noto nelle neuroscienze, chiamato “rosy memories” (si potrebbe tradurre in “nostalgia”), in base al quale il presente ci sembra sempre più brutto del passato, perché l’uomo inconsciamente seleziona e trattiene solo i ricordi positivi rimuovendo, invece, quelli più dolorosi.
Il passato, in altre parole, è “il buon tempo antico” di leopardiana memoria, un periodo della vita in cui tutto era più lieve. Non si tratta di una divagazione di stampo squisitamente letterario ma di un solidissimo principio di marketing. Il sollecitare nel pubblico un ricordo piacevole ha permesso a molti marchi di far impennare il fatturato. Basti pensare alla famosa “famiglia del Mulino Bianco” che negli anni Novanta ci proiettava in un’infanzia fatta di cose semplici e naturali, dove tutto era più buono.
U
na decina di anni fa Lindstrom ha condotto in prima persona un esperimento in Cina, teso ad avvalorare la validità della teoria dei ricordi per influenzare gli acquisti. La multinazionale francese Danone, infatti, all’epoca non riusciva a vendere l’acqua in bottiglia a marchio Evian nella Repubblica Popolare. Un marchio che, invece, in tutto il mondo polverizzava la concorrenza, perché richiamava la purezza dell’acqua di fonte. Grazie all’apporto fondamentale di un team di psicologi inviati dalla casa madre nel paese, sono state condotte diverse interviste tese a sviscerare le implicazioni inconsce del consumo di acqua in bottiglia. Era impossibile, infatti, data la natura piuttosto particolare del prodotto, condurre normali test di marketing. A fronte della domanda «secondo lei di cosa sa quest’acqua?» il 99,9% degli intervistati avrebbe risposto senza alcun dubbio: «Di acqua». Applicando i principi del neuromarketing, invece, si è riusciti a formulare domande utili a comprendere il perché del fenomeno. Si è scoperto che gli scarsi risultati commerciali erano legati al fatto che l’acqua in bottiglia aveva un gusto diverso da quello cui normalmente sono abituati i cinesi. Essendo una popolazione in prevalenza rurale, infatti, la maggior parte dei cinesi è cresciuta andando a prendere l’acqua al pozzo del paese che, passando attraverso le rocce, finiva per avere un vago retrogusto di terra cui, ormai, i più si erano abituati. Con il progressivo inurbamento di metropoli come Shangai, Pechino o Shenzen, anche i cinesi hanno iniziato a consumare acqua in bottiglia che, però, risultata troppo “pura” per i loro gusti. In realtà, quindi, le performance della filiale PRC non erano state compromesse da un’errata immagine del marchio o da errori di comunicazione, packaging o marketing ma dal fatto che l’acqua in bottiglia veniva associata all’abbandono del paese di origine e all’inizio della vita caotica in città.
Gli scienziati di Danone hanno, quindi, rivisto in toto il processo di filtraggio dell’acqua, in modo che alla fine quella imbottigliata lasciasse un sottile retrogusto di terra ed erba. Il risultato è stato spettacolare, tanto che oggi è il secondo player di mercato in quel mercato.
What else?
Altro esperimento molto noto nel mondo del neuromarketing è quello che ha visto Nestlé investire un quantitativo spropositato di euro in attività di
“marketing esperienziale” per creare il fenomeno Nespresso. Il 60% del piacere legato al concedersi una tazzina di caffè al bar, infatti, secondo studi condotti dalla multinazionale svizzera è legato all’esperienza in sé più che alla bontà o al gusto della bevanda. E allora perché non ricreare all’interno di una minuscola capsula tutta l’esperienza della pausa caffè al bar, un rito, un lusso da concedersi all’inizio o a metà giornata? Tutto, nelle attività di marketing di Nespresso, gira intorno al concetto di “unicità” dell’esperienza legata al brand: il negozio non viene mai indicato come tale, si parla sempre di boutique; tutto, dagli arredi al personale di vendita (molto ossequioso) ti fa sentire coccolato. E i clienti? Non esistono, perché chi acquista le famose capsule entra a far parte di un “club”. Anche il fascinoso testimonial hollywoodiano viene ignorato, perché la vera, assoluta protagonista degli spot pubblicitari è lei, la tazzina della corroborante bevanda nera. E per riproporre anche a casa, nel proprio ambiente familiare, l’esperienza del bar, Nestlé ha lavorato molto sull’olfatto, enfatizzando l’aroma che si sprigiona dalla “magica” capsula, perché dia la sensazione di respirare l’aria del bar, anzi perché dia l’impressione che questo caffè sia addirittura migliore di quello della torrefazione. I risultati di questa strategia sono sotto gli occhi di tutti perché, come sostiene Lindstrom, «Il brand è pura emozione. Se una marca non crea emozioni, allora non si può definire tale, si può solo parlare di prodotti».