La digital trasformation sempre più spesso viene collegata al tema della disruptive innovation per motivi diversi, tutti riconducibili a un unico argomento fondamentale: il business. Tradotto, cosa significa che è un business è disruptive?
È disruptive quando un’azienda rompe col passato, usando l’innovazione tecnologica per creare prodotti e/o servizi capaci di ottenere immediatamente il consenso di un vasto pubblico, facendo la differenza nel business. Il punto di rottura sta nel cambiamento di strategia: invece di lavorare sulle abitudini consolidate delle persone e sul miglioramento progressivo di prodotti o servizi esistenti, si usa la creatività e l’immaginazione per progettare servizi e prodotti di cui ancora non esiste una domanda e non si percepisce nemmeno un bisogno.
La premessa della self disruption è l’abbandono di un business diventato obsoleto. Il denominatore comune, invece, è la tecnologia digitale, che aiuta le aziende a rinnovarsi e a gestire (cioé inventare, analizzare, progettare, testare, implementare, erogare, manutenere, tracciare, controllare, assicurare) il business, potenziando le relazioni con i colleghi, i partner, i clienti, i consumatori.
È la multicanalità a cambiare le regole di ingaggio
Per le aziende capire se e come generare un business disruptive è fondamentale per ipotizzare il fatturato che verrà. Le buzzword, su questo tema, sono note: c’è chi parla di uberizzazione e chi di amazzonizzazione per spiegare una digital disruption tramite cui due brand di successo hanno cambiato le regole di ingaggio del mercato. In che modo? Proponendo nuove formule di servizio a un target dal potenziale infinito, ovvero quel popolo multicanale e iperconnesso che ogni giorno usa dispositivi fissi e mobili per lavorare e per divertirsi.
Solo guardando in casa nostra, le ultime ricerche condotte da Nielsen, Connexia e la School of Management del Politecnico di Milano, raccontano come il 60% degli italiani sia diventato multicanale. Considerando il tempo di utilizzo del telefonino nel giorno medio, risulta che il 65% del tempo degli smartphone addicted è dedicato ad attività in vario modo connesse alla Rete. Intercettare questo target crescente per chi vuole fare business è un must.
Business disruptive: tra il dire e il fare c’è di mezzo il digitale
Per capire meglio il contesto, va contestualizzata la genesi. Il termine disruptive innovation, infatti, risale a un saggio pubblicato sulla Harvard Business Review nel 1995, da Clayton Christensen e Joseph Bower, intitolato Disruptive Technologies: Catching the Wave in cui si analizzavano la cause per cui le aziende di successo tendono a investire massivamente in tecnologie che soddisfano i bisogni dei clienti nel breve e nel medio termine ma falliscono nel lungo termine, perché incapaci di guardare a nuovi mercati e a nuovi bisogni da cui si genera la domanda. La morale? Apportare aggiornamenti e modifiche è un work in progress che non aiuta le aziende a fare utili dai salti quantici.
A distanza di quasi vent’anni Larry Downes e Paul F. Nunes hanno approfondito il discorso, pubblicando nel 2014 un saggio intitolato Big Bang Disruption, in cui si spiega come la diffusione di smartphone e tablet, il consolidamento della banda larga e del cloud così come di tutto l’ecosistema di interazioni creato dalle app (che avvicinano in tanti modi diversi gli utenti ai brand), stiano dando origine a modelli di business alternativi, a costi estremamente competitivi.
È indubbio come la Internet of things da un lato e i social media dall’altro stiano sensorizzando e collegando il mondo secondo nuove logiche di fruizione e di servizio. A ben guardare, infatti, lo smartphone è stato solo il primo strumento che ha palesato al mondo la IoT, rendendo evidente come il mondo degli oggetti connessi e comunicanti sia in grado di trasformare rapidamente e notevolmente i nostri bisogni e le nostre abitudini in senso positivo.
Chi cerca di immaginare nuovi business deve partire da questa nuova visione della tecnologia e del mondo in cui viviamo. Il tutto considerando una velocità, una facilità e un’intelligenza inedite, rispetto al passato. A essere smart, infatti, non sono gli oggetti ma le applicazioni che cortocircuitano le informazioni, modulando servizi in chiave digitale (e analogica). Tutto questo grazie a una nuova dimensione collaborativa della programmazione legata all’uso delle API (Application Programming Interface) e alla metodologia Agile, in una combinazione che ha inaugurato una nuova era dello sviluppo chiamato DevOps.
La nuova era dell’imprenditoria digitale
Il business disruptive non può prescindere da questi presupposti. Secondo una recente analisi condotta da The Economist Intelligence Unit per conto di Hewlett Packard Enterprise, oggi non c’è settore industriale in cui gli executive non siano alle prese con il tema della digital disruption. Che si tratti di start up o di aziende che hanno business consolidati, tutti guardano con crescente attenzione la discesa in campo di player capaci di identificare target di mercato che ancora non c’erano e di generare dal nulla una (vera) domanda. L’imprenditoria più lungimirante si sta chiedendo come fare a inventare un nuovo business a base digitale, che permetta di generare fatturato in maniera veloce, facile e così pervasiva da garantire la remuneratività in breve tempo. A questo proposito gli esperti hanno identificato sia la road map che la timeline, schedulando un percorso che, se applicato con metodo, può guidare le aziende a identificare un modello di sviluppo e di rilascio che aiuterà in modo concreto ad accelerare il cammino verso una disruptive innovation capace di garantire il successo ed il ROI.
La road map della trasformazione digitale in 9 tappe
Perché farlo? Gli analisti dell’Economist citano Geoffrey More, teorico e consulente di marketing e gestione aziendale che, nel suo libro Crossing the Chasm marketing and selling disruptive products to mainstream customer, evidenzia come più o meno ogni dieci anni le aziende si ritrovano a dover reimpostare il proprio business battendo strade che offrono spesso margini di fatturato molto più alti dei precedenti. Questi nuovi modelli di business possono essere radicalmente diversi dal business originale e stravolgere i modelli organizzativi su cui l’azienda è stata fondata e ha costruito la sua storia. Ma sono anche l’unico modo per rafforzare il futuro aziendale con una strategia di prospettiva. È questa, infatti, la natura della disruption. Qui sotto, la tabella riportata dagli analisti de The Economist Intelligence Unit:
Sapere quando è ora di giocare l’ultima partita di un business
Il punto di partenza del cambiamento è dunque la consapevolezza che nessun business può durare in eterno, quindi ogni azienda deve sapere quando è ora di giocare l’ultima partita. L’Enciclopedia Britannica, in questo senso, ha fatto scuola: dopo due secoli e mezzo, ha annunciato che non avrebbe più stampato una copia cartacea di quella che era riconosciuta come un’istituzione della cultura mondiale, insegnando al mondo che saper giocare l’ultima partita di un business non è la fine ma un nuovo inizio. Innovare, creare, giocare la prima partita è relativamente facile. Molto più difficile è giocare l’ultima. L’Enciclopedia Britannica lo ha fatto con stile, al punto che gli esperti sull’end-game hanno costruito un principio della buona finanza.
I consulenti, infatti, sottolineano come i veri manager dovrebbero sapere quando è il momento di concludere un ciclo di business e intraprenderne uno nuovo, con nuove regole di ingaggio e, ovviamente, nuove sfide. Iniziare un percorso di innovazione sfruttando il potenziale digitale che si ha a disposizione, significa sfruttare tutte le tecnologie disponibili: mobile e servizi Wi-Fi che garantiscono l’accesso ormai gratuito al Web a un pubblico infinito, ad esempio, e quel cloud che rappresenta la risorsa delle risorse per antonomasia. Sperimentare un nuovo ambiente di sviluppo sulla nuvola consente a qualsiasi azienda economie di scala estremamente più interessanti e margini di azione estremamente più ampi.
E dopo l’idea ci vuole un’infrastruttura, meglio se ibrida
Questo riporta il discorso all’architettura IT necessaria a supportare il nuovo business. Prima ancora delle soluzioni, infatti, la disruption innovation è fatta di vision. Le aziende che vogliono intraprendere il cambiamento devono gestire in maniera dinamica le risorse, sfruttando modelli ibridi per avere massima flessibilità nel gestire quali risorse mantenere in modalità tradizionale fisica e quali virtualizzare, definendo l’accesso alle applicazioni secondo le diverse formule dell’as a service e del pay per use. Offrire al clienti quello che serve quando serve e dove serve davvero è possibile se c’è un’agilità della programmazione, capace di rilasciare velocemente applicazioni performanti e molto sicure. Un modello disruptive, infatti, non può prescindere dalla business continuity: la governance sempre e comunque deve essere capace di presidiare servizi dall’orizzonte fortemente digitale attraverso competenze di nuovo livello.
Certo è che ci vuole estremo pragmatismo e molta consapevolezza. All’inizio il processo di pianificazione può non essere immediatamente funzionale. Ci vuole temperamento per guidare un’azienda e cavalcare il cambiamento significa anche convivere con periodi di grossa incertezza. Tuttavia a supporto di questa fase esiste comunque un approccio strategico: progettare un business disruptive, infatti, è sfidante ma anche molto remunerativo. E il modello ha comunque un punto di partenza e un punto di arrivo: il primo consiste dall’iniziare a capire quali sono i digital asset dell’azienda. Ogni azienda, infatti, ha in pista una serie di progetti digitali che vanno catalogati, rivisti e usati come base di partenza per costruire con successo il business digitale di domani.