Ogni volta che viene pubblicata una nuova ricerca che misura il grado di digitalizzazione dell’Italia ci ritroviamo ad analizzare i motivi che ci relegano nel gruppo dei fanalini di coda. L’ultima in ordine di tempo è quella dell’Unione Europea, il “Digital economy and society index”, che posiziona il Paese a uno sconfortante 25esimo posto su 28. E che riflette la ben nota scarsa propensione all’investimento in informatica: siamo bloccati a un misero 1,7% del PIL, peraltro in discesa, dato inferiore anche a quello della Spagna e che va confrontato con il 3,3% della Francia o il 4,3% degli Usa.
Senza entrare nel merito del ruolo che la PA potrebbe avere per imprimere una vera svolta e colmare il ritardo, sembra che il sistema delle nostre imprese, o almeno una buona fetta di esse, si comporti come il pesce che non vede l’acqua in cui nuota. Non riesce cioè a vedere l’impressionante progresso tecnologico in cui siamo immersi, e a trovare così il coraggio di mettere in atto i cambiamenti che questa rivoluzione alimentata dai bit impone. Anche chi ne è consapevole troppo spesso si trincera dietro un muro di alibi: non abbiamo la banda larga, c’è un ritardo culturale, gli italiani non sono pronti. Ma si tratta, appunto, di alibi che impediscono a chi ha in mano le leve decisionali di uscire dalla propria “confort zone”.
«Ho la sensazione che non sia un tema di cultura, quindi di basso livello di penetrazione o di impermeabilità del Paese all’ICT. Scontiamo invece un ritardo dal punto di vista manageriale, che si manifesta in una scarsa propensione al cambiamento per un numero molto significativo di realtà», afferma Giuliano Noci, docente di Marketing al Politecnico di Milano. Il riferimento, in particolare, è alle strategie orientate al Mobile. Secondo Audiweb, infatti, sono 22 milioni gli italiani tra i 18 e 74 anni che accedono ogni mese a Internet da smartphone e Tablet, pari alla metà della popolazione di riferimento. I giovanissimi poi, navigano su Internet da smartphone e tablet per più del 70% del tempo e persino per gli over 55 la percentuale ha superato ormai quota 50%. Il mercato di riferimento delle aziende oggi è questo: siamo noi, che tocchiamo il nostro smartphone 150-200 volte al giorno, appena svegli la mattina e come ultima cosa prima di andare a dormire. Se ce lo avessero detto pochi anni fa non ci avremmo creduto, invece ora ci sembra assolutamente normale.
«Invito i nostri top manager ad andare in metropolitana e guardarsi intorno. C’è uno iato che porta il manager come individuo a essere “super mobile” e quando è professionista a essere iper conservativo», dice Noci.
Sì perchè innovare significa anche affrontare dei rischi. «Il vero tema è che oggi non c’è una ricetta magica, delle best practice con un ROI certo da seguire. Se le aziende aspettano di avere dati
certi sul ritorno dell’investimento, probabilmente non partiranno mai. I manager devono assumersi il rischio di provare a gestire l’innovazione, consapevoli della direzione del mercato», conferma Marta Valsecchi, Direttore dell’Osservatorio Mobile B2c Strategy del Politecnico di Milano, che sottolinea come tante aziende che sono oggi tra le più evolute in qualche modo sono state costrette a muoversi per reagire alla minacciosa concorrenza degli agilissimi player digitali, una volta che ne hanno toccato con mano gli effetti. Un esempio? «Le aziende dell’elettronica dopo l’arrivo in Italia di Amazon si sono trovate nella situazione di dover ripensare completamente come affrontare la competizione di un player che stava cambiando drasticamente le regole del mercato. Allora si è spinto l’eCommerce, o il canale Mobile integrato con il punto vendita». E quando i servizi ci sono, gli italiani li usano di più e meglio di molti altri. Secondo una ricerca Microsoft relativa all’atteggiamento delle persone verso le tecnologie, emerge addirittura che siamo fra i più abili al mondo. L’Italia è al TOP quando si valuta la curiosità verso i nuovi servizi, siamo i più pronti a fornire i nostri dati a un’azienda se c’è un ritorno in termini di qualità del servizio, e perfino disponibili, nel 65% dei casi, a mettersi un sensore sotto pelle per avere in cambio informazioni sulla salute. «Quando un’azienda pensa che i consumatori italiani non siano pronti, sta facendo due errori», dice Carlo Purassanta, numero uno di Microsoft nel nostro Paese: non solo gli italiani sono pronti. Ma il mondo non è l’Italia, perchè il mercato è oggi globale.
Naturalmente non bisogna generalizzare. Ci sono anche tanti manager che il coraggio l’hanno saputo trovare e sono soprattutto quelli delle aziende medio-grandi. «Si iniziano a vedere segnali positivi nella giusta direzione – dice Marta Valsecchi-. Siamo quindi convinti che, nei prossimi anni ci saranno trasformazioni significative nelle modalità di interazione con i consumatori. Il punto è per quanto tempo ci diremo che siamo ancora in questa fase: se dovremo aspettare 2 anni o 10 per vedere la trasformazione».