Ci sono ancora problemi e ostacoli nel percorso evolutivo della fattura elettronica obbligatoria verso la Pa. È vero che la macchina è a regime, ma ha bisogno ancora di qualche aggiustamento, soprattutto nel rapporto tra enti locali e fornitori della Pa.
Si annidano qui i principali nodi da sciogliere, a quanto riferisce Irene Facchinetti, co-Direttore Osservatorio Fatturazione Elettronica e Dematerializzazione della School of Management del Politecnico di Milano. Fa fede anche un recente incontro al Cisis (Centro Interregionale per i Sistemi informatici, geografici e statistici), dove alcuni fornitori si sono lamentati per quelle che a loro dire sono “pretese” da parte delle amministrazioni pubbliche, nella fattura elettronica.
«Un primo tema riguarda le personalizzazioni che le singole PA richiedono ai propri fornitori. Queste richieste aggiuntive ricorrono con maggiore frequenza e solo a volte si dimostrano necessarie e condivisibili», dice Facchinetti. «A volte viene richiesto di allegare un file Fattura in PDF o addirittura di inviare una copia cartacea (al solo scopo di conservare inalterato il processo di validazione tradizionale, evidentemente). Altre volte viene chiesto di inserire dati particolari o peculiari codifiche in alcuni campi (per esempio, indicazioni personalizzate sul luogo di destinazione della merce, una valorizzazione ad hoc del riferimento amministrativo o dei riferimenti all’ordine)», continua Facchinetti.
Un altro fronte aperto è «la pratica del rifiuto del documento che non riporta alcune informazioni (per esempio, CIG e CUP). Se è vero che rifiutare una fattura può avere valore formativo per il fornitore su come compilarla correttamente, è anche vero che una fattura può essere rifiutata solo se fiscalmente non corretta (e CIG e CUP impattano sull’esigibilità della fattura, non sul suo valore fiscale)», dice Facchinetti. I fornitori chiedono anche che, in caso di rifiuto, almeno la PA lo motivi contestualmente. Così può permettere una rapida correzione della fattura.
Il recente rapporto dell’Agenzia per l’Italia Digitale (pubblicato il 31 luglio) sullo stato della fattura elettronica non quantifica i rifiuti fatti dalle PA, ma solo quelli dello Sdi (che avvengono per errori formali di semplice rilevazione). Le Regioni ribadiscono, d’altro canto, che i rifiuti non sono pretestuosi: hanno bisogno dei dati aggiuntivi per tracciare meglio al proprio interno le spese. Questo è uno dei motivi di sistema per cui l’Italia ha reso obbligatoria la fattura elettronica verso la PA.
Hanno questioni da affrontare le stesse PA che «pur gestendo le fatture elettroniche, si vedono avanzare la richiesta, da parte dei revisori dei conti, di procedere alla stampa, da presentare congiuntamente a tutti gli altri documenti (ancora cartacei)», dice Facchinetti.
Sono tutti aspetti da sistemare perché questi processi arrivino a piena maturità. In molti casi, si tratta di sistemare al dettaglio le procedure e mettersi d’accordo tra le parti, con la mediazione delle figure istituzionali di riferimento.
Noto da tempo, inoltre, il fatto che la maggior parte dei Comuni gestisce ancora a mano le fatture al proprio interno. L’integrazione dei sistemi informatici richiederà tempo ed è uno dei fronti su cui deve lavorare l’Agenzia per l’Italia Digitale, con un ruolo di supporto alle amministrazioni.
C’è un altro aspetto che si può considerare una lacuna ancora da colmare nel viaggio della fattura elettronica obbligatoria; ma al momento non solleva problemi o polemiche di sorta: restano 307 le amministrazioni inadempienti verso la norma (sono prive cioè di un ufficio registrato per ricevere le fatture).
Solo per il 32%, però, si tratta di vere e proprie pubbliche amministrazioni (soprattutto Unioni di piccoli Comuni, consorzi e Parchi Nazionali). Per il restante 67%, sono soggetti al confine tra settore pubblico e privato: enti pubblici di servizi assistenziali, ricreativi e culturali.