La pandemia ha incrementato l’utilizzo dei canali digitali da parte dei clienti, sottoponendo a forti pressioni le imprese più attente al valore della customer experience. I contatti digitali sono cresciuti in modo esponenziale, e molte strutture hanno risposto tentando – in modo più o meno strutturato e razionale – la carta dell’automazione. Evidenti i motivi: riuscire a garantire una buona esperienza, rendersi reperibili tutto il giorno, e, soprattutto, razionalizzare i costi. Per questo motivo, negli ultimi due anni, il tema chatbot è diventato prioritario per un customer service manager intento a efficientare la propria struttura, abbattendone i costi e permettendo alle proprie risorse di occuparsi di attività a valore aggiunto. Da cui, oltretutto, più engagement e produttività.
Chatbot, un’arma tanto efficace quanto pericolosa
Ciò che molte imprese non avevano considerato è che un chatbot è un’arma a doppio taglio. Può infatti favorire e innescare esperienze di livello, assecondando la necessità dei clienti di ottenere risposte rapide, self e 24/7, ma può anche far perdere tempo e, nei casi più gravi, compromettere la fiducia del cliente stesso e generare frustrazione. Sarà capitato a molti di chattare con un assistente virtuale non in grado di fornire risposte adeguate, che non inoltra la conversazione a un operatore in carne ed ossa e che, peggio ancora, non rivela la propria natura digitale obbligando l’utente a scoprirlo da sé. In questi, e molti altri casi, uno strumento nato per efficientare il customer care e migliorare l’experience determina unicamente la perdita del cliente.
Introdurre un chatbot nel customer care: cosa non fare
Premessa l’estrema delicatezza del tema, come si introduce efficacemente e come si migliora la customer experience con un chatbot? Con aiuto di Marco Tommasucci, Key Account Manager Finance di ComApp (Gruppo Present), affrontiamo il tema in modo un po’ diverso dal solito, partendo dagli errori che non vanno commessi e giungendo successivamente alle modalità corrette di adozione, sia a livello di percorso che di tecnologia. Gli errori da non fare sono sostanzialmente tre, tutti piuttosto ricorrenti:
- Avere fretta. È comprensibile volere tutto e subito, soprattutto nel periodo della pandemia, ma anche i migliori chatbot vanno addestrati e inseriti gradualmente nel customer journey, avendo cura di non dare loro eccessive responsabilità e monitorandone l’operato e il miglioramento con appositi strumenti di analisi.
- Inserire soluzioni di continuità. Approfondiremo questo concetto nella parte della tecnologia abilitante, ma è fondamentale fin da subito abbattere il concetto dei silos. Capita spesso che il cliente inserisca i suoi dati durante la conversazione con l’assistente virtuale e poi debba ripeterli all’operatore in carne ed ossa. Ciò va assolutamente eliminato.
- Non dichiarare che si tratti di un chatbot. Far finta che il chatbot sia un collega umano è sbagliato. Le persone apprezzano la trasparenza, oltre al fatto che – allo stato attuale – è ancora semplice distinguere una macchina da un operatore in carne ed ossa.
L’importanza di disegnare un dialogo efficace tra brand e cliente
Per molte aziende, il fallimento dei chatbot non è dipeso da lacune tecniche degli stessi, ma dal fatto di non averlo integrato correttamente all’interno dell’experience. Il chatbot è un anello del journey, uno dei tanti strumenti che le aziende possono adottare per migliorare l’esperienza e renderla piacevole. Se viene interpretato in questo modo, l’assistente virtuale ha un valore indiscusso, altrimenti non è utile e rischia di compromettere il rapporto con il cliente.
“Fortunatamente – ci spiega Marco Tommasucci – qualcosa è sta cambiando. A differenza del passato, oggi molte aziende hanno consapevolezza di cosa sia un bot e cosa si debba fare per renderlo efficace. In particolare, si sono finalmente rese conto di quanto sia importante “disegnare” un dialogo efficace con il cliente e posizionare il chatbot in modo corretto nel customer journey. Finalmente, molte imprese iniziano a ragionare in termini di experience, ed è questo il segreto del successo. In aggiunta, ovviamente, all’aspetto tecnico, che tra AI e Machine Learning ha avuto importanti evoluzioni negli ultimi anni”.
Who's Who
Marco Tommasucci
Key Account Manager Finance di ComApp (Gruppo Present)
Il concetto di disegnare il dialogo con il cliente lungo il customer journey è la base di esperienze e relazioni appaganti tra persone e brand: è necessario capire dove e come introdurre il chatbot, in quali casi favorire il passaggio della conversazione all’operatore umano e quando non farlo, eventualmente predisponendo materiali di formazione online suggeriti dallo stesso chatbot. In tutto ciò, bisogna tenere in considerazione che un risponditore automatico non nasce per risolvere problemi, ma è uno strumento efficace per ottenere informazioni e porre in essere attività specifiche. Al chatbot si può/deve chiedere che comprenda ciò che gli viene domandato e che, appunto, fornisca informazioni o passi la conversazione a un collega umano; non si può pensare che sostituisca gli agenti o si faccia carico di casi complessi: la sinergia è la soluzione.
Il ruolo cardine della tecnologia e dell’omnicanalità
La tecnologia è il fattore che abilita la trasformazione del customer care, ma è un tassello di un articolato percorso di progettazione del dialogo e dell’esperienza. Le aziende, da sé o affidandosi a chi ha competenze specifiche in merito, devono comprendere la finalità del chatbot, dove introdurlo, come costruire il journey e poi studiare un percorso di inserimento graduale. Inizialmente, il chatbot potrebbe anche solo smistare le richieste sugli operatori dedicati, per poi occuparsi in prima persona di una piccola parte dei dialoghi e incrementare progressivamente il suo raggio d’azione. “Le aziende che usano al meglio i chatbot – spiega Tommasucci – entrano in un vero e proprio circolo virtuoso: il bot inizia ad acquisire dati che gli permettono di essere sempre più preciso ed efficace nelle risposte. In questo modo migliora l’esperienza, i clienti apprezzano la disponibilità 24/7 e l’assenza di code e l’azienda inizia poco per volta a risparmiare, raggiungendo di fatto tutti i suoi obiettivi”.
La parte tecnologica è essenziale per concretizzare il progetto e il disegno del customer journey. Non parliamo unicamente di NLU (Natural Language Understanding) e di Machine Learning, ma anche di analytics delle interazioni (Interaction Analytics), che permettono di comprendere il sentiment del cliente all’interno di una conversazione scritta ed eventualmente di passarlo ad un operatore umano per ottenere maggiore empatia.
Infine, ma non per importanza, c’è il tema dell’omnicanalità. Un progetto in cui i chatbot operano a silos rispetto agli altri canali e punti di contatto non può avere successo. Il cliente di oggi non solo vuole utilizzare tutti i canali digitali, ma esige sinergia e coerenza tra gli stessi: la customer experience è una sola, a prescindere dal modo in cui si sviluppa. È quindi fondamentale che i chatbot siano integrati nelle piattaforme con cui le aziende gestiscono i contact center e, più in generale, il rapporto con i clienti. Sotto questo profilo, una visione interessante è quella di Genesys, la multinazionale statunitense leader nelle soluzioni di contact center e cloud customer experience: l’azienda parla infatti non tanto (o non solo) di chatbot, canali, ecc., bensì di experience as-a-service, miscelando il tradizionale modello cloud (as-a-service) con il vero focus delle sue piattaforme, ovvero l’esperienza omnicanale che queste sono in grado di garantire ai propri clienti. È infatti dall’orchestrazione corretta di chatbot, canali di contatto tradizionali e digitali, voce, messaging, video ecc., che l’azienda può conquistare la loyalty dei clienti ed abbattere i costi di retention.