Intorno all’universo delle piccole e medie imprese che disegnano in modo molto particolare il tessuto economico italiano, ruota una galassia altrettanto frammentata e altrettanto indispensabile per la loro crescita e di conseguenza per quella del Paese. Caratteristica cruciale di una realtà con pochi addetti è non poter contare su risorse interne per tante competenze.
Da questo nasce un rapporto di stretta collaborazione con il mondo delle professioni – commercialisti, avvocati e consulenti del lavoro in prima linea – chiamati a garantire adeguato supporto nell’adempimento degli obblighi di legge e la necessaria consulenza per sfruttare al meglio le potenzialità dell’innovazione tecnologica.
Proprio questo si rivela come uno dei punti delicati, messi a fuoco dalla School of Management del Politecnico di Milano, attraverso la seconda edizione dell’Osservatorio ICT & Professionisti, con un importante cambiamento di prospettiva rispetto alla prima indagine.
«Siamo passati dalla logica strettamente verticale dello scorso anno a una più di sistema, considerando i professionisti integrati con il mondo delle imprese – spiega Claudio Rorato, responsabile della ricerca -. Analizziamo un ecosistema dove entrambi interagiscono per formare un’unica realtà ai fini dello studio ».
Un settore che nell’insieme in Italia conta oltre 430mila realtà, suddivise tra la maggioranza di avvocati (69%), un 25% di commercialisti e il restante 6% di consulenti del lavoro. Ai fini statistici, è stata considerata anche una quarta area, nella quale rientrano gli studi che esercitano almeno due di queste tre professioni.
Un primo aspetto offre subito la dimensione dei problemi che affliggono la categoria. Solo il 20% infatti si preoccupa di rilevare il tempo speso dal personale sulle attività interne o svolte per i clienti. In particolare, tra chi non lo ritiene necessario spicca il 91% tra gli avvocati.
Come prima conseguenza, questo influisce sul tempo speso all’interno dello studio, per l’88% pari almeno alla metà, con un 50% che lo trascorre quasi tutto. Gli studi multidisciplinari arrivano addirittura al 93%. Una propensione molto scarsa quindi al mobile working quindi, oltretutto visto per lo più come opzione sperimentale e occasionale.
Le potenzialità dell’ICT e le barriere
Il beneficio principale rilevato dai professionisti riguarda le dematerializzazione dei documenti, visti gli elevati volumi di carta prodotti. Ciononostante la resistenza alla gestione elettronica dei documenti resta alta. «In particolare, per email e fax emerge spesso una doppia gestione, elettronica e stampata – precisa Rorato -. Più che i costi del software e la relativa formazione, la scarsa capacità di quantificare i benefici e la difficoltà a integrare nel processo le procedure dei clienti sono le principali barriere all’adozione. Tutto ciò può essere interpretato anche come tanto lavoro per i vendor».
L’interesse per la tecnologia tuttavia esiste, come conferma il 73% degli studi interessati a prendere in considerazione l’ipotesi di prestare servizi online. D’altra parte, lascia qualche perplessità tra i restii, quel 19% che ritiene la prospettiva poco professionale. Tra le aree che vengono prese in considerazione per estendere la propria attività, spicca la consulenza su startup ambita dal 28% e il controllo di gestione, sullo stesso piano della fatturazione elettronica con il 25%. Riceve interesse anche la formazione tecnica (23%).
La questione si fa via via più delicata man mano che ci si addentra nel campo della tecnologia ICT. Se nei prossimi due anni firma digitale e home banking saranno la regola in tre casi su quattro, per il resto l’adozione è ancora molto scarsa. Il 21% infatti fa uso di un sito Internet come ‘vetrina’ o poco più, mentre il 20% sfrutta le potenzialità dell’e-learning.
Qualcosa nei prossimi due anni sembra destinato a muoversi, anche se la maggioranza resta ferma sull’intenzione di stare ancora alla finestra. A fronte infatti di 33% intenzionato ad adottare la conservazione sostitutiva e un 30% rivolto alla gestione dei pagamenti elettronici, spiccano rispettivamente un 39% e un 57% del tutto disinteressato. Lascia a pensare anche il 27% che ignora l’esistenza di software a supporto del workflow, così come il 23% che non conosce il CRM.
Anche chi è ben disposto si trova frenato dalle disponibilità finanziarie. Quasi la metà infatti nei prossimi due anni non tende investire più di tremila euro in ICT, il 21% addirittura meno di mille. La maggioranza relativa risiede però in quel 29% intenzionato a spendere tra i tremila e i diecimila euro, mentre solo il 6% si dice pronto a superare i diecimila. Addirittura, il 17% starà totalmente alla finestra.
«È una grande sfida anche per le Associazioni di categoria, chiamate a capire le cause – commenta Rorato -. I più sensibili in questo caso si rivelano gli studi multidisciplinari, mediamente più grossi e quindi più portati ad adottare la tecnologia».
Inquadrata la situazione, la ricerca ha voluto approfondire le ragioni di questa reticenza diffusa verso l’innovazione. Alla base di tutto, un problema tipico delle piccole organizzazioni, ma anche della realtà italiana. Nel 42% dei casi si indica infatti come causa principale la scarsa alfabetizzazione informatica del titolare. Da non trascurare però anche gli elevati costi del software (30%) e la difficoltà nel capire l’offerta (23%). Dall’insieme scaturisce anche qualche responsabilità per i produttori di software e i rispettivi canali di vendita, poco efficaci nel trasmettere caratteristiche e potenzialità delle applicazioni. A iniettare una dose di ottimismo può contribuire l’ultima analisi mirata.
Quasi la totalità (96%) è infatti cosciente delle potenzialità della tecnologia informatica nel migliorare l’efficienza di uno studio professionale, così come il 91% le ritiene utili per semplificare l’attività lavorativa. Inoltre, il 90% riconosce di poter sviluppare in questo modo nuovi modelli organizzativi, mentre un 85% pensa di poter mettere a punto nuovi prodotti o servizi. Dove invece è prioritario intervenire è sullo scarso 39% convinto di poter trarre vantaggi in termini di fidelizzazione del cliente.
«Dobbiamo preoccuparci soprattutto di quel 35% che ha dichiarato un calo di redditività superiore al 10% nell’ultimo anno – conclude Rorato -. Se li guardiamo non come fornitori ma parte dei processi aziendali, nel momento in cui entrano in crisi rischiano di mandare in difficoltà anche le relative aziende clienti, perchè viene a mancare il necessario supporto specializzato. Aziende e professionisti devono essere visti come sistema ed è in questa direzione che vanno intraprese eventuali iniziative di sostegno allo sviluppo tecnologico».