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Come costruire il successo di un brand: i segreti di un guru del marketing

Le decisioni d’acquisto sono spesso irrazionali, e le indagini di mercato non bastano, spiega Martin Lindstrom: occorre il neuromarketing per studiare molto da vicino i propri clienti-target, fino a capire gli effetti dei messaggi pubblicitari sulla loro mente. Per scoprire, per esempio, che occorre “disintegrare” il logo in immagini, suoni, colori e forme. O che un’acqua minerale, per avere successo in Cina, deve sapere di erba. Ecco come creare un marchio di successo

Pubblicato il 03 Mar 2014

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Viaggio nella mente del consumatore

Perché un consumatore compra un certo prodotto o servizio? La capacità di rispondere a questa domanda determina il successo o il fallimento di enormi investimenti: la disciplina che studia i meccanismi di decisione del consumatore si chiama Neuromarketing, e il danese Martin Lindstrom è uno dei maggiori esperti mondiali in materia. Nel novembre 2013, al World Business Forum di Milano e al MIP-Politecnico di Milano, Lindstrom ha tenuto la conferenza “Perché compriamo oggi: dentro la mente del consumatore”, di cui qui riportiamo una sintesi.

Quanti di voi mentre sono sovrappensiero si ritrovano a picchiare con le nocche sul legno o sul metallo? Oppure, entrando in un bagno pubblico, evitano il primo cubicolo, scegliendo il secondo o il terzo? Queste sono solo alcune delle molte cose irrazionali che ogni giorno facciamo inconsciamente. Studi neurologici indicano che l’85% delle decisioni quotidiane è inconscio, e quelle d’acquisto non fanno eccezione. Ma noi pensiamo di essere consumatori assolutamente razionali: per questo le ricerche di mercato, anche le più scientifiche e rigorose, a volte non funzionano.

Un esempio è il Segway, il rivoluzionario “monopattino intelligente”, lanciato oltre dieci anni fa, dopo un rigoroso studio di fattibilità con indagini di mercato mirate, focus group e così via, che ha generato grandi aspettative. I produttori prevedevano di vendere 2,9 milioni di unità nei primi sei anni. Invece ne hanno consegnate 30.000.

Questo lancio è stato studiato nei minimi particolari, tutto è stato fatto come dicono i manuali, sono sicuro anche che nei focus group hanno fatto le domande giuste alle persone giuste. Eppure c’è qualcos’altro, che porta il consumatore a decretare il successo o il fallimento di prodotti e brand in modo irrazionale, inconscio. Per questo l’indagine di mercato non basta: la gente a volte risponde una cosa, e poi ne fa un’altra. E spesso quest’incoerenza non è voluta. L’unico modo per capirci di più è interagire con il consumatore: parlarci, viverci letteralmente insieme per qualche giorno, studiare i più piccoli dettagli nell’ambiente in cui agisce.

Io lo chiamo “sleeping with the consumer”. Negli ultimi dieci anni ho intervistato migliaia di persone in tutto il mondo in questo modo. Ho anche fatto uno dei più grandi studi di Neuromarketing, su 2.000 consumatori, per capire quali zone del cervello si attivano quando si viene sottoposti a messaggi pubblicitari o si decide un acquisto. E’ così che si può creare un marchio di successo che resta nella mente delle persone.

Perché le donne amano le borse Vuitton

Cosa abbiamo scoperto con questo studio? Che determinati tipi di reazione sono spesso associati a precise aree del cervello. Per esempio l’Area 10 di Brodmann, nella corteccia frontale, si attiva quando pensiamo che un prodotto sia “cool”, trendy, e possa quindi elevare la nostra immagine e status sociale. La parte destra della corteccia prefrontale mediale è collegata alla tendenza a collezionare e accumulare prodotti. Il “nucleus accumbens” gioca un ruolo importante per i meccanismi di dipendenza e gratificazione.

Per il mio libro “Brandwashed” ho condotto una ricerca su 30 donne, chiedendo perché amassero tanto le borse Louis Vuitton. Metà di loro è stata solo intervistata, l’altra metà è stata anche sottoposta a risonanza magnetica funzionale (fMRI), una tecnica per studiare le reazioni della mente agli stimoli. Nelle interviste, tutte hanno sottolineato la qualità di questi prodotti (cuoio, chiusura zip, finiture, durata nel tempo, ecc.), ma in quelle sottoposte a risonanza la vista delle borse Vuitton attivava appunto l’Area 10 di Brodmann. Insomma, le donne nelle interviste razionalizzavano parlando di qualità, ma in realtà erano attirate dalla “coolness” del marchio. Questo evidenzia uno dei principali meccanismi di preferenza dei brand: il consumatore è portato a fidarsi di altri consumatori, delle loro opinioni e scelte, e specialmente delle persone che lo circondano nella vita quotidiana. Ecco perché, tra l’altro, hanno tanto successo le varie liste “Top 10” e “Top 100”.

Per studiare questo fenomeno, ho condotto un esperimento trasferendo una famiglia-modello, i Morgenson (in realtà erano attori), in una cittadina della California, e riempiendo la loro casa di prodotti di dieci brand. Hanno condotto una normale vita sociale, in tre mesi hanno frequentato la loro casa 129 persone, che hanno avuto a che fare con altre, e così via. Direttamente o indirettamente il “passaparola” ha coinvolto 12.302 persone, e il 16% in quei tre mesi ha comprato almeno uno dei dieci brand che avevamo piazzato nella casa. Quindi per creare un marchio serve anche il passaparola.

Ogni brand ha due gruppi target

Questo meccanismo va sfruttato nel Marketing, ma in che modo? I grandi brand hanno milioni di clienti, ma il target primario è molto più ristretto: per McDonald’s sono le famiglie, non i teenager. Per Apple sono i designer, i creativi. Per Facebook sono gli studenti, e per Nike gli atleti.

Il fatto è che è sbagliato rivolgersi a tutti. Il messaggio primario va rivolto a un gruppo molto preciso e mirato, detto “aspirational group”, che è in grado di influenzare un gruppo molto più ampio (“target group”), che è quello che genera il volume di vendite. Più è ristretto e ben definito l’aspirational group, maggiore sarà il numero di persone che compreranno il prodotto, cioè il suo successo: è uno dei paradossi del Marketing.

Di conseguenza vanno condotte due campagne distinte, con tempi diversi, prima rivolgendosi ai componenti del gruppo “aspirational”, che io chiamo “magnets”, e poi, dopo alcuni mesi, al secondo gruppo, i “takers”. Bisogna dare il tempo ai “magnets” di conoscere il prodotto o servizio, e diffondere le loro opinioni verso i “takers” attraverso i vari canali, tra i quali stanno diventando cruciali i social network.

E ora parliamo dei comportamenti legati a un’altra area del cervello, il “nucleus accumbens”, detto anche “craving spot” (l’angolo dei desideri, ndr). Ho fatto un esperimento su un certo numero di fumatori, e ho notato che la loro reazione è negativa di fronte ai logo dei produttori di sigarette, ma ci sono dei simboli “indiretti” che stimolano il loro nucleus accumbens invogliandoli a fumare, quando hanno la “guardia abbassata”. Quali? In Formula 1 i produttori di sigarette non possono esporre i loro logo, ma hanno escogitato altri modi sottili – accostamenti di colori, personaggi, oggetti (il cowboy per Marlboro, il fuoristrada per Camel, e così via), o persino codici a barre, apparentemente inutili, sulle vetture da gara – per generare dei messaggi subliminali e stimolare la voglia di fumare.

Io chiamo questo meccanismo “smash the brand”: si va oltre il logo, evocando nel consumatore un brand tramite un ecosistema di simboli, icone, suoni, immagini, colori, forme, cioè di “smashables”. Posso farvi vedere un video di un minuto e mezzo in cui non si nomina mai Coca Cola, né si vede il suo logo, ma decine di “smashables” vi faranno venire voglia di bere una Coca: la forma della loro iconica bottiglietta di vetro, l’onda bianca su fondo rosso, persino il rumore della lattina stappata e della bibita versata nel bicchiere.

Perché gli auricolari Apple sono bianchi

E Apple? Pensate agli auricolari: i cavetti sono sempre stati neri, ma Apple li ha fatti bianchi. Oggi se esibite dei cavetti bianchi significa che siete un utente Apple: in tasca avete un iPhone, un iPod o un iPad, anche se non si vede. Insomma, il successo di un brand si misura anche dal numero di simboli che ci spingono inconsciamente a pensare a esso, e i brand tentano di mostrarci sempre più di questi simboli, in ogni momento e circostanza.

È un meccanismo legato anche all’uso quotidiano di dispositivi come computer e smartphone, che sta cambiando la fisiologia dell’essere umano, spingendolo verso il multitasking: secondo recenti ricerche il consumatore medio può gestire 1,3 canali di comunicazione contemporaneamente, ma per le ultime generazioni la media sale a 1,4. Io chiamo i ragazzi di oggi “instant gratification generation”: hanno bisogno di stimoli continui, e i colossi del largo consumo ne approfittano attuando un “24/7 branding”.

Una leva formidabile: la nostalgia

Non è continuo solo il “bombardamento”, ma anche il monitoraggio. C’è bisogno di capire sempre più profondamente il consumatore, e le corde da toccare per influenzarlo. Un modo efficace di far scattare il meccanismo di gratificazione per esempio è la nostalgia, le “rosy memories”. Sappiamo che l’uomo “seleziona” solo i ricordi positivi delle esperienze passate, e se si riesce a riprodurne le condizioni l’effetto è dirompente, perché si rivivono tutte le emozioni di quella volta. È per questo che tutti abbiamo dei film preferiti che rivediamo decine di volte.

Vi faccio un esempio di come questo possa influire sulle strategie di Marketing. Qualche anno fa sono stato chiamato da Danone: il loro marchio Evian (acqua minerale) andava bene in tutto il mondo tranne che in Cina. Ho fatto molte interviste, la gente mi rispondeva “l’acqua Evian sa di acqua”. Cosa significa? Vent’anni prima la Cina era essenzialmente un Paese rurale, la gente viveva in campagna, estraeva l’acqua dal pozzo, la filtrava e la beveva. Il problema era che l’acqua Evian era troppo filtrata: non riusciva ad attivare il ricordo dei bei tempi della vita in campagna. Così Danone ha trovato una sorgente in Cina che lascia un sottile retrogusto di erba e terra anche dopo il filtraggio, e ha aumentato enormemente le vendite diventando il terzo player del mercato.

La vodka fa convivere etica e Marketing

Spero di avervi dato un’idea di come vanno oggi le cose nel Marketing. Ma il quadro non è ancora completo. Ritengo infatti che il tema della correttezza e dell’etica in questo campo sia ormai di primo piano, e che i grandi brand debbano darsi delle linee guida di comportamento. Alcune tecniche che ho raccontato sono al limite della correttezza verso il consumatore, e la “potenza di fuoco” delle multinazionali è immensa. Ma Internet e i social network attualmente sono una cassa di risonanza potentissima: può nascere una “wikileaks” dedicata alle scorrettezze dei grandi brand, e già oggi l’indignazione veicolata da Twitter e Facebook è in grado di influire pesantemente sull’immagine anche di una compagnia globale.

Marketing ed etica quindi possono convivere, come dimostra quest’ultimo caso. Un paio d’anni fa sono stato chiamato in Russia da un’azienda governativa che mi ha posto due obiettivi in conflitto: creare un nuovo brand di vodka, e contribuire a ridurre il consumo di alcol nel Paese. Il primo problema era che in Russia ci sono tremila marche di vodka. Come farne emergere un’altra con successo? Ho iniziato a fare interviste, sono andato anche in Siberia, ho sentito gente di tutte le età. Ho imparato che i russi bevono la vodka in gruppo, con un rituale in cui tutti si scolano l’intero bicchiere in una volta. Ma in realtà molti odiano la vodka, soprattutto perché la qualità media è bassa, e 50 ml bevuti tutti insieme bruciano tantissimo. Un’altra cosa che ho appreso dalle interviste è che tra i popoli più ammirati dai russi ci sono i finlandesi.

Occorreva quindi “brandizzare” un nuovo modo di bere la vodka: far accettare l’idea di bere a piccoli sorsi, e quindi di meno. Abbiamo così pensato di lanciare un nuovo marchio finlandese (in realtà il liquore è prodotto in Russia e imbottigliato in Finlandia), con una pubblicità che mostrava che in Finlandia è “virile” bere la vodka in bicchieri piccoli, e a sorsi. Il risultato? Il nuovo marchio è ora il terzo sul mercato russo della vodka, ma quello di cui vado più orgoglioso è che in questi due anni la percentuale di uomini russi che bevono alcolici a sorsi è salita dallo 0,7% al 17%. Stiamo contribuendo a cambiare il modo in cui la gente beve, in un Paese in cui l’alcolismo è una piaga sociale, e una delle prime cause di morte.

Vi lascio con una frase di Benjamin Franklin, che sintetizza efficacemente tutto ciò che ho detto: “Se mi dici una cosa, la dimenticherò. Se me la mostri, potrei ricordarmela. Se mi coinvolgi, la capirò”. Insomma, più studi il consumatore, lo coinvolgi, ascolti i segnali che manda, e più apprezzerà il tuo brand, restandogli fedele nel tempo.

*****DA SAPERE*****

Chi è Martin Lindstrom
Inserito nel 2009 nella “World’s 100 Most Influential People” di Time, Martin Lindstrom studia i comportamenti del consumatore, le tecniche di convincimento dei brand, e gli effetti dei messaggi pubblicitari sulla mente (neuromarketing). Si definisce “customer advocate” o “fan of the consumer”, e particolarmente interessato al tema della “manipolazione del consumatore”. È conferenziere, autore di libri (tra cui i bestseller “Buyology” e “Brandwashed”) e articoli su Wall Street Journal, Economist, New York Times, BusinessWeek, nonché consulente: ha lavorato tra gli altri per McDonald’s, Procter & Gamble, Microsoft, Walt Disney, GlaxoSmithKline.

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