Il GS1, l’ente internazionale no profit che definisce gli standard mondiali per lo scambio di dati nelle supply chain, celebra in questi giorni il 40° compleanno del codice a barre. Era infatti il 3 aprile 1973 quando i manager di alcune grandi aziende USA di beni di largo consumo si accordarono per usare il bar code UPC, sviluppato da IBM, come standard d’identificazione dei prodotti. Più di un anno dopo, il 26 giugno 1974, in uno store a Troy (Ohio), Clyde Dawson comprò un pacchetto di chewing-gum, il cui codice a barre fu il primo scansionato nella storia.
Cominciava così, sottolinea il GS1, una delle più grandi rivoluzioni nel mondo dei beni di largo consumo: l’adozione di un linguaggio univoco ha permesso la visibilità dei prodotti lungo l’intera supply chain senza confini e barriere. Oggi, ogni giorno nel mondo, gli scanner di negozi e supermercati leggono più di 5 miliardi di codici a barre GS1. Il bar code avvantaggia i consumatori, riducendo gli errori di digitazione dei prezzi e i tempi d’attesa alle casse. Ma è utile anche alle imprese: potendo monitorare gli stock e i flussi dei punti vendita, possono ridurre i costi e offrire un servizio migliore ai clienti.
Un apposito studio ha rivelato che i codici a barre producono un risparmio annuale pari al 6,6% del fatturato, ed è statisticamente dimostrato che la digitazione manuale produce un errore ogni 300 battute, mentre la probabilità di errore nella lettura a scanner di un bar code è tra 1 su un milione e 1 su 4000 miliardi. Intanto GS1 sta lavorando sugli eredi del bar code: il GS1 DataBar, l’EPC (Electronic Product Code), basato su tag RFID, gli standard GS1eCom per lo scambio elettronico di dati e documenti amministrativi, e il GS1 Global Data Synchronisation Network (GDSN) per l’allineamento tempestivo, sincronizzato e sicuro delle informazioni anagrafiche dei prodotti tra produttori e distributori.