scenari

Il futuro incerto del manifatturiero italiano

Il Paese per crescere ha bisogno di mantenere sul territorio gli impianti, perché non può esserci innovazione senza conoscenza dei metodi di produzione, come hanno compreso anche gli USA e l’UE. Il punto di vista di Armando Brandolese, professore del Politecnico di Milano

Pubblicato il 17 Apr 2013

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L’Italia ha senza dubbio ancora bisogno di un’industria manifatturiera ampia e competitiva. Lo ha ribadito in una conferenza organizzata dal Mip-Politecnico di Milano Armando Brandolese, professore emerito dell’ateneo e già ordinario di Impianti industriali meccanici, ricordando che “Lo sviluppo del dopoguerra si è basato sul manifatturiero che ha costituito un’arma potente per la crescita del Paese”.

Ma ci sono anche ragioni più attuali che spiegano l’importanza del mantenere una forte base produttiva nella Penisola. L’importanza del manufacturing è nota anche negli USA: un report del President’s Council of Advisor on Science and technology ha ricordato di recente al Presidente Obama che l’innovazione è strettamente legata alla conoscenza dei metodi di produzione. “Non possiamo rimanere il motore dell’innovazione del mondo senza il manifatturiero”, si legge.

L’invocazione sembra sia stata raccolta anche dalla Ue che si è posta come obiettivo di passare entro il 2020 dall’attuale 15,6% del Pil legato al manifatturiero al 20%. Una decisione importante che contrasta la delocalizzazione delle imprese che, secondo Brandolese, rappresenta un grave pericolo.

Il punto critico dell’offshoring è “lo stretto legame esistente fra la conoscenza, la capacità di innovare e migliorare il proprio processo produttivo e la capacità di innovazione sui propri prodotti. In molti casi – prosegue il docente del Politecnico – per mantenere la capacità innovativa di prodotto è indispensabile l’integrazione tra progettisti e ingegneri di processo che consente di assicurare capacità produttiva, costo di produzione e conformità oltre che ridurre il time to market”. E il codesgin, invocato come possibile risposta, per un’azienda che punta all’innovazione ha dei limiti ben precisi. Perché se il fornitore acquisisce competenze poi può benissimo utilizzarle con altri. Brandolese cita il direttore di ricerca di un’azienda convinto che “l’innovazione si compra sul mercato”. Oggi quell’azienda non c’è più.

Ma oltre al rischio delocalizzazione l’Italia soffre anche di una grande crisi di produttività. Le unità produttive, non le aziende, ubicate in Italia stanno gradualmente riducendo la loro competitività. Colpa della burocrazia, della lentezza dei pagamenti della Pa, incertezza del diritto, corruzione, infrastrutture, scarsi collegamenti Internet, fisco. Tutte ragioni validissime, secondo Brandolese, che preferisce però puntare il dito contro “la rigidità delle relazioni industriali “che grava pesantemente sul nostro mercato del lavoro e rappresenta un forte elemento di dissuasione per i futuri investimenti delle imprese italiane e straniere.

L’importate però è che le aziende rimangano in Italia a produrre. Così come ha deciso di fare Google che per i suoi nuovi occhiali ha imposto a Foxconn di aprire uno stabilimento in California. In questo modo, come ha scritto il Financial Times, gli ingegneri di Mountain View saranno a stretto contatto con il processo produttivo per mettere a punto il prodotto e realizzare eventuali customizzazioni. E acquisire nuove conoscenze.

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