Per un Gruppo industriale globale come Techint, presente in tutto il mondo con 59mila dipendenti e un fatturato consolidato di 25 miliardi di dollari, ogni decisione di investimento va ben calibrata (date le grandezze in gioco), puntando su un orizzonte temporale non inferiore a dieci anni. Spiega Gianfelice Rocca, Presidente del Gruppo che ha guidato sin dagli Anni 70: «Operando con una logica prettamente industriale e non finanziaria, non possiamo permetterci di sbagliare nell’allocazione degli impianti: è fondamentale comprendere in quale direzione va il mercato. Cerchiamo di capire il futuro, anche se è impossibile prevederlo con precisione». Per questo, la visione di Rocca sulle dinamiche in atto nel mondo globalizzato è sempre aggiornata e puntuale: ne abbiamo parlato a margine di un incontro organizzato dal Politecnico di Milano in occasione dei 30 anni della laurea in Ingegneria gestionale – che qualche anno fa gli è stata assegnata ad honorem – dove l’imprenditore ha tenuto un discorso presentando la sua “vista sul mondo”.
Il Gruppo Techint ha vissuto una crescita straordinaria negli ultimi 10 anni. Nel frattempo però gli equilibri mondiali sono profondamente cambiati, con il boom della Cina e la crisi finanziaria in Europa e Stati Uniti. Quali sono, secondo lei, le sfide da affrontare oggi?
Il Gruppo Techint è passato in 10 anni da 5 ad oltre 25 miliardi di fatturato. Ma nel frattempo è cambiato tutto: il PIL del mondo in termini di dollari a prezzi costanti è quasi raddoppiato, con un grande impatto sull’ambiente, sulle risorse umane e sulle istituzioni. I Paesi sviluppati hanno perso posizioni, mentre i cosiddetti “emergenti” sono cresciuti e ormai producono il 50% del PIL mondiale. Fino al 2008 questa crescita è apparsa lineare, ma con la crisi finanziaria sono venuti alla luce alcuni squilibri che mostrano oggi situazioni insostenibili. Il motore della crescita è stata la Cina, che è diventata la fabbrica del mondo: oggi concentra il 25% di tutta l’attività manifatturiera mondiale, a fronte del 12% dei consumi. Il Paese ha goduto di due dividendi: il primo demografico, ovvero è cresciuta la popolazione in età di lavoro, passando dal 60% nel 1980 al 73% nel 2011, e questo è uno dei motori più potenti dell’economia. Ma ora è arrivata al picco. Il secondo dividendo è il tasso di risparmio, che è passato dal 37% al 52%. La grande forza cinese nell’export ha finito per generare un colossale risparmio che ha finanziato i paesi sviluppati. Solo la Walmart importa 27 miliardi di dollari l’anno dalla Cina. Si è invertito il flusso che abbiamo conosciuto nel corso degli ultimi due secoli e questo ha contribuito a produrre uno dei fenomeni alla radice della crisi: il mondo si è riempito di denaro facile. Io continuo a pensare che nonostante il deleveraging che sta avvenendo in Occidente e i tentativi di riduzione dell’indebitamento privato e pubblico, vivremo ancora in un mondo caratterizzato dal denaro facile. A ciò si aggiunge l’enorme quantità di investimenti effettuati dalla Cina: il 40% del totale è andato a settori di sostegno all’export, come porti, sistemi di trasporto, infrastrutture.
Qual è stato l’impatto di questi investimenti nel settore siderurgico mondiale?
Basti dire che in siderurgia la Cina ha finanziato i propri produttori nel corso degli ultimi otto anni per 52 miliardi di dollari. Non è concorrenza leale: l’utile complessivo delle aziende siderurgiche cinesi che producono metà dell’acciaio del mondo è minore dell’utile di Tenaris e Ternium. Come si compete con un sistema industriale che ha aspettative di ritorno zero?
Nell’economia globale, quali ritiene che siano le più pesanti conseguenze della crescita esplosiva della Cina?
Innanzitutto il forte impatto ambientale. In Cina, fino a poco tempo fa, veniva aperta una centrale di 1000 MW ogni settimana e per ogni centrale sono 6 milioni le tonnellate di CO2 in più che vengono immesse nell’atmosfera. L’aumento del consumo del carbone è stato del 4,7% annuo negli ultimi 10 anni.
Inoltre, la Cina è arrivata ad acquistare il 45% delle commodities mondiali. Questo fatto riveste un’importanza enorme per Paesi come l’America Latina, dove le risorse naturali hanno rappresentato un elemento fondamentale per l’economia. Il prezzo delle commodities è cresciuto mediamente del 400%.
Questo anche nel settore alimentare: ad esempio il prezzo della soia, fondamentale per l’economia argentina, è cresciuto del 200%.
Cosa ha comportato questo incremento dei prezzi delle commodities in America Latina, un mercato dove siete molto presenti?
La conseguenza è stata la deindustrializzazione dell’America Latina, quel fenomeno noto in economia come Dutch Disease (la correlazione fra l’aumento dello sfruttamento delle risorse naturali e il declino del settore manifatturiero, ndr). Con i prezzi delle materie prime che crescono, si “primarizza” l’economia, le valute si rivalutano e i Paesi si trasformano in realtà che esportano materie prime arricchite e importano prodotti manufatti della Cina. Il Brasile, un paese industriale, oggi ha un manifatturiero che è solo il 15% della sua economia, mentre in Cina è il 32-33%. La catena metalmeccanica nei paesi dell’America Latina si sta sfilacciando. Chi vende prodotti nel settore della meccanica vede letteralmente scomparire i propri fornitori. Oggi l’America Latina ha mediamente un consumo di acciaio dell’ordine dei 130-150 chili pro-capite, mentre tutti i paesi asiatici sono sopra i 400, con la Corea che detiene il record mondiale di 1200. È nostra convinzione che la mancanza di un’industria meccanica renda impossibile che si formi una stabile classe media, come invece è accaduto in 10-15 anni ad esempio a Taiwan.
Un altro problema gravissimo oggi è la perdita dei posti di lavoro nei paesi occidentali…
Il vero motore dell’instabilità è proprio la polarizzazione del lavoro nei paesi sviluppati: la mediana del lavoro ha avuto un colpo gravissimo. La crescita è andata ad avvantaggiare i super ricchi, l’1% della popolazione americana. Ed è stata una crescita senza lavoro dovuta alla globalizzazione del commercio e alla innovazione ICT: molti posti di lavoro nella parte mediana sono stati “mangiati” dalla rivoluzione tecnologica e informatica. Con la classe media che si indebolisce, gli Usa come l’Inghilterra sono diventati paesi a bassa mobilità sociale. Si scopre infatti che se mancano i gradini intermedi diventa estremamente difficile passare da una classe all’altra. Ma la situazione è in evoluzione. La Apple, ad esempio, sta riportando una parte della produzione negli Usa: è recente la notizia di un investimento di 100 milioni di dollari. La Apple dice però di avere un problema di skill labour, non trova cioè profili adatti per coprire questo tipo di mansioni.
Anche voi continuate a investire nel USA.
Negli ultimi anni abbiamo investito nel Sud degli Stati Uniti e Nord del Messico molti miliardi di dollari.
Non bisogna poi dimenticare che negli Stati Uniti è in corso la rivoluzione dello shale gas. Gli Usa hanno 300 tcf (trillion cubic feet) di gas convenzionale e 900 tcf di gas non convenzionale, lo shale gas, che si ottiene tramite le perforazioni orizzontali con fratture nelle rocce da cui fluiscono petrolio e gas: una rivoluzione totale. Il Paese si sta reindustrializzando, con nuovi investimenti: avevano realizzato 21 impianti per ricevere gas liquefatto dall’estero e li stanno riconvertendo per esportare gas.
Parliamo di innovazione. È la leva che permette alle aziende occidentali di essere ancora competitiva?
L’innovazione è da sempre la forza dell’Occidente, che però deve stare attento a non farsi superare dai nuovi competitori cinesi, che oggi hanno come obiettivo di rendersi indipendenti dall’innovazione “straniera”. Sono convinto che più che l’Hi-Tech, in Paesi come Germania, Italia e Giappone sia molto importante il Medium-High Tech.
Perché il Medium-Hi-Tech è più importante dell’Hi-Tech?
Sorprendentemente, nei paesi sviluppati la capacità competitiva è più forte nel Medium-High Tech e le esportazioni in questo settore sono in crescita a scapito di quelle Hi-Tech. In Germania sono passate dal 66% al 71%, idem per il Giappone. Gli Stati Uniti, come l’Inghilterra, partendo dal 45% sono cresciuti di 10 punti entrambi.
Ma vi è un altro tema di grande interesse: la catena del valore del Medium-Hi Tech rispetto all’Hi-Tech è più territoriale e le professionalità coinvolte garantiscono redditi proprio in quell’area “mediana” che tende a svuotarsi nel mondo. Il nostro gruppo sta studiando le correlazioni fra intensità di Medium-Hi Tech e miglior distribuzione del reddito, per valutare come tale intensità operi come contrasto alle disuguaglianze. Se così fosse, la politica economica dell’Europa, la politica della ricerca e dell’educazione non dovrà essere solo pensata per migliorare la nostra performance nell’Hi-Tech, perché il Medium-Hi Tech rappresenta la forza dei redditi medi. Si tratta di uno dei punti di forza della Germania e in parte anche del Giappone. L’Hi-Tech è importante, ma se andiamo a vedere quanti siano i posti di lavoro creati negli USA, si riscontra che sono relativamente pochi. Credo che la reindustrializzazione, che sembra una parola d’ordine in tutti i Paesi sviluppati, coincida con la riscoperta del Medium-Hi Tech. Con conseguenze in tutti i campi, in particolare nel settore della ricerca e dell’education.
È ottimista sul futuro dell’Europa?
Negli ultimi dieci anni l’Europa è stata sostanzialmente un successo dal punto di vista della bilancia commerciale, molto migliore di quella americana, sul fronte del debito pubblico, inferiore a quello americano e giapponese, sul fronte della distribuzione dei redditi, anche grazie alla diffusione del Medium-High Tech. Ma il Vecchio Continente è al centro della più grande disfunzionalità istituzionale. L’organizzazione europea sugli Stati afferma un sistema che invece di auto-rimediare i punti di debolezza, finisce per rafforzarli. Quando la crisi si inasprisce e il bilancio pubblico soffre, un paese viene caricato di tasse. Stiamo buttando via uno dei più elevati elementi di civiltà e di lavoro per la difficoltà o incapacità di risolvere problemi di carattere sociale, politico, istituzionale. Credo che questa disfunzionalità creerà problemi sempre maggiori.
***** Techint in Italia e nel mondo******
Techint è un Gruppo industriale in cui lavorano oggi 59 mila persone con un fatturato di 25 miliardi di dollari. In quasi 70 anni di attività le società del Gruppo, presenti nei cinque continenti, hanno raggiunto livelli di eccellenza in diverse aree di business: siderurgia, engineering & construction, impianti idustriali, oil & gas e sanità.
Il Gruppo Techint opera attraverso le società:
• Tenaris produttore e fornitore leader a livello globale di tubi in acciaio e di servizi destinati all’industria energetica mondiale e ad altre applicazioni industriali specialistiche.
• Ternium tra le maggiori aziende siderurgiche in America latina, produce un’ampia gamma di prodotti di acciaio piani e lunghi. Gli impianti principali sono in Messico, Argentina, Colombia, USA e Guatemala.
• Techint E&C società specializzate nella progettazione e realizzazione di pipelines e impianti industriali nei settori oil & gas, chimico e petrolchimico, energia, infrastrutture e minerario.
• Tenova, uno dei maggiori fornitori mondiali di tecnologie, prodotti e servizi di ingegneria all’avanguardia per l’industria metallurgica e mineraria.
• Tecpetrol una impresa di esplorazione e produzione di idrocarburi che promuove e gestisce reti di trasporto e distribuzione di gas in America Latina.
• Humanitas una rete di ospedali in Italia orientati alla ricerca, con una gestione centrata sul paziente e basata sull’uso di sistemi informativi integrati di ultima generazione.
******Chi è Gianfelice Rocca*******
Milanese, classe 1948, nel 1974 è entrato nel Gruppo Techint, fondato dal nonno Agostino Rocca nel 1945, assumendo la responsabilità di tutte le attività in Italia, Europa e Messico. Dal 1997 è Presidente del Gruppo. Sotto la sua direzione il Gruppo Techint ha ampliato considerevolmente le attività, creando tra l’altro Tenova, che oggi opera in 26 paesi nei 5 continenti come fornitore di tecnologie, prodotti e servizi di ingegneria per l’industria siderurgica e mineraria, e fondando l’Istituto Clinico Humanitas, ospedale policlinico ad alta specializzazione. Appassionato scalatore, si è laureato in Fisica con 110 e lode presso l’Università di Milano e ha conseguito un PMD presso la Harvard Business School di Boston. Ha inoltre ricevuto la laurea ad honorem in Ingegneria Gestionale dal Politecnico di Milano.