Non so se il sogno della self-driving car farà la stessa fine di quello, accarezzato a lungo ma tramontato 30 anni fa, di produrre energia a costo minimo con la cosiddetta “fusione fredda”. Oppure se esso si avvererà, superando ostacoli che non sono solo tecnologici, con un impatto profondo sulla nostra mobilità, sulla logistica e sullo sviluppo di una molteplicità di servizi innovativi.
Quello che mi sembra certo è che il sogno è vissuto come un incubo dalle grandi case automobilistiche, che – timorose di perdere la loro storica leadership di filiera (e larga parte della loro profittabilità) a vantaggio delle imprese tech se non disporranno di sistemi di self-driving competitivi – sono comunque costrette, in assenza di certezze sul futuro, a investire ora notevoli risorse in attività lontane dalle loro classiche competenze. E lo sono nello stesso momento in cui
- la crescita della sensibilità ambientale le obbliga a investire nelle auto elettriche;
- le potenzialità sintetizzabili con il termine “Industria 4.0” le costringono, per non lasciare spazi ai competitori, a ripensare i loro sistemi produttivo-logistici;
- la domanda è in evoluzione, perché le nuove generazioni sembrano meno interessate al possesso dell’auto e più inclini alla condivisione, meno sensibili al “ruggito” del motore e più alla qualità della connessione in rete.
Come stanno rispondendo le grandi case automobilistiche? Come le imprese del ride hailing quali Uber, le più immediate beneficiarie del self-driving per la possibilità di dirottare i loro clienti verso flotte di auto senza guidatore (robo-taxi)? E come le imprese tech, a partire da Waymo, la “costola” di Google che ha accumulato la maggiore esperienza in assoluto in termini di km percorsi?
Le strade possibili, per le imprese automobilistiche e di ride hailing, sono sostanzialmente tre:
- far nascere nuclei di R&D al loro interno, “importando” risorse umane con competenze digitali adeguate (i pionieri dell’esperienza Google sono tuttora fra i più gettonati): una strada lunga da percorrere, se intrapresa da sola;
- sfruttare la potenza finanziaria per acquisire le tech startup più promettenti: una strada molto più veloce, ma con le stesse ovvie difficoltà di integrazione in contesti culturalmente diversi (pena la fuoruscita dei soggetti più interessanti);
- stringere alleanze e fare accordi, equity o non equity, fra di esse e/o con le tech: per condividere i costi estremamente pesanti e le esperienze, per ridurre i rischi, per promuovere sinergie laddove gli M&A non siano possibili o convenienti.
È su questo ultimo punto che è in atto una accelerazione frenetica. AlixPartners, come riportato dal WSJ, ha contato nel 2017 ben 271 operazioni di partnership contro le 131 dell’anno precedente: con tutte e quattro le categorie considerate – electric vehicles, connected cars, autonomous vehicles e car sharing – in crescita.
Toyota, che ha recentemente dichiarato di volersi trasformare in una società di servizi, è entrata nel capitale di Uber e Grab (la “Uber indonesiana”) e ha appena realizzato una partnership con SoftBank – la società giapponese che ha creato il più grande fondo di venture capital del mondo (il Vision Fund con 100 miliardi di dollari) – per mettere a punto un servizio di robo-taxi. In Cruise – la startup per lo sviluppo del self-driving acquisita da GM nel 2016 – sono coinvolte a vario titolo, oltre a GM stessa, Honda e Lyft (concorrente statunitense di Uber), con il supporto finanziario del Vision Fund (che è peraltro il principale azionista di Uber). Daimler e BMW hanno di recente fuso i loro servizi di car sharing (Car2Go e DriveNow), puntando a una leadership forte nel comparto. Waymo ha stretto accordi con FCA e Jaguar Land Rover per farsi produrre veicoli adatti per una propria flotta. E, sotto lo stimolo del governo cinese, le tre big tech (Alibaba, Tencent e Baidu) stanno collaborando con le imprese automobilistiche del Paese per la messa a punto di sistemi di self-driving competitivi.