Emirati Arabi Uniti, Qatar e Arabia Saudita sono i paesi dove il fisco è più leggero con le imprese. L’Italia invece viaggia in 131° posizione, due in più rispetto alla precedente classifica realizzata da PriceWaterhouseCoopers, Banca Mondiale e International finance corporation. In pratica mentre negli Emirati Arabi si paga il 14,9% sui profitti, nella Penisola si arriva al 68,3%.
Il problema però non è la differenza rispetto agli Emirati, ma la competizione con gli altri paesi europei. Nel vecchio continente l’Italia è ultima, vicino alla Francia, e lontana dalla Germania – dove le imposte sui profitti arrivano al 46,8% – e dalla Gran Bretagna dove la percentuale scende a picco verso il 35,5%.
La differenza è data soprattutto dagli oneri e i contributi che gravano sul lavoro, inclusa l’Irap: a Berlino valgono il 21,9%, in Italia il doppio.
Sempre limitando il confronto agli altri paesi europei le differenze sono rilevanti per quanto riguarda tutti i parametri utilizzati per lo studio. La gestione delle pratiche tributarie porta via alle imprese italiane 269 ore all’anno, quasi 100 in più rispetto all’Europa.
Se la media continentale è di 13 pagamenti annui da noi sono 15 e il total tax rate in Italia (imposte sui redditi delle società, contributi previdenziali e tasse sul lavoro versate dal datore, imposte sui beni immobili, tassa sui dividendi, sul capital gain, sulle transazioni finanziarie, sui rifiuti, sulla circolazione dei veicoli e altri contributi obbligatori) sfiora il 70% dei profitti d’impresa mentre sul continente (Ue+Efta) scende al 42,6%, una media che tiene conto del 21% del Lussemburgo.
Sempre la Banca mondiale prende atto però che qualche passo in avanti è stato fatto. Nel suo ultimo rapporto “Doing business” rileva che il contesto operativo in cui operano le imprese è in via di miglioramento e che nell’ultimo anno sono avvenuti cambiamenti importanti. La classifica è composta in base ai risultati di rilevazioni relative a dieci elementi: avvio d’impresa, ottenimento dei permessi edilizi, allacciamenti alla rete elettrica, trasferimento di proprietà immobiliare, accesso al credito, protezione dei soci di minoranza, pagamento delle imposte, commercio transfrontaliero marittimo, risoluzione di dispute commerciali, risoluzione dell’insolvenza e procedure concorsuali.
I miglioramenti, però, non bastano a portarci in alto nella classifica del rapporto. Dall’87° posto del 2011 siamo arrivati a quota 73 su 183 paesi presi in esame e una posizione media degli altri Stati europei che intorno al 40. Per salire non ci vuole molto. Basterebbe che ci fosse un po’ più di attenzione a quanto fanno le migliori città della Penisola. Se infatti in una sola città italiana venissero adottare le migliori best practices dei 13 capoluoghi presi in esame il salto sarebbe immediato.