Le acquisizioni (M&A – mergers & acquisitions), come spiega un qualsiasi manuale di strategia di impresa, rappresentano uno dei due principali strumenti – accanto alla crescita organica (la crescita cioè realizzata attraverso investimenti interni) – di cui l’impresa dispone per il proprio sviluppo. La preferenza per uno strumento piuttosto che per l’altro dipende da diversi fattori: dalla velocità ad esempio con cui si vuole entrare in un nuovo mercato o espandere la propria quota in un mercato in cui si è già presenti (antitrust permettendo); dall’esigenza di acquisire competenze e know-how di difficile sviluppo interno o brevetti e brand indispensabili per il lancio di nuovi prodotti; dalla necessità di impedire a una impresa concorrente di aumentare la propria quota o di impadronirsi di un brevetto importante; nonché da un insieme di altre motivazioni, cui faremo in parte cenno nel seguito di questo articolo.
Ma le acquisizioni possono avere anche una motivazione meramente finanziaria. Allo stesso modo in cui uno speculatore edilizio acquista un palazzo se pensa di poterlo rivendere – dopo averlo adeguatamente ristrutturato e/o suddiviso in appartamenti più piccoli – a un prezzo che gli garantisca un significativo margine di guadagno, chi acquista una impresa con motivazioni finanziarie si propone di realizzare una plusvalenza vendendo l’impresa ristrutturata a un prezzo più elevato e/o vendendo separatamente alcuni dei suoi asset di particolare valore e/o impadronendosi di parte delle sue disponibilità finanziarie. L’impresa può essere ceduta a un altro acquirente finanziario o a un acquirente cosiddetto strategico che (per le ragioni viste sopra) la voglia integrare al suo interno oppure può essere quotata – attraverso un IPO (initial public offering) – sul mercato borsistico.
La frequenza delle operazioni, la prevalenza degli acquirenti strategici o di quelli finanziari, la modalità di pagamento (in cash e/o in azioni dell’acquirente), nonché la distribuzione geografica e settoriale delle operazioni variano anche profondamente nel tempo, al variare delle esigenze delle imprese e delle risorse finanziarie reperibili per tali operazioni. Ma, al di là di queste oscillazioni, il fenomeno M&A ha comunque una forte rilevanza. Nonostante un calo del 18 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, ad esempio, il valore complessivo delle acquisizioni – 5.747 – nei primi sei mesi del 2012 è ammontato a 982 miliardi di dollari: a più della metà cioè, per avere un termine di paragone, del PIL italiano di un anno. Mentre l’anno record rimane il 2007, l’ultimo prima della grande crisi, quando il valore totale annuo complessivo raggiunse i 4,83 trilioni di dollari, con il 41 per cento originato operazioni cross-border.
Una possibile tassonomia delle acquisizioni
L’obiettivo di questo articolo è quello di analizzare nel dettaglio l’evoluzione delle motivazioni che stanno alla base delle acquisizioni, sino ad arrivare alle più recenti, attraverso una tassonomia – da noi proposta – che segmenti le acquisizioni stesse secondo assi dimensionali ortogonali fra loro, quali:
- la tipologia dell’acquirente: un operatore finanziario specializzato (quale tipicamente ma non solo un fondo di private equity) piuttosto che un’impresa industriale o di servizi;
- la tipologia del “target”, ossia (in gergo) dell’impresa oggetto dell’acquisizione, in termini di posizione nel ciclo di vita: una start-up piuttosto che un’impresa già consolidata;
- l’obiettivo del “deal”, ossia (in gergo) dell’operazione di acquisizione: strategico, nelle sue diverse declinazioni, o finanziario;
- la caratterizzazione geografica del “deal”, data dalla combinazione del Paese dell’acquirente e di quello del target. I quattro assi verranno analizzati in dettaglio di seguito, fornendo una serie di esempi per ciascuna tipologia.
La tipologia dell’acquirente
A partire dagli anni ottanta, e fino al 2007, i fondi di Private Equity hanno giocato un ruolo crescente, e in alcuni anni addirittura dominante, nel mondo delle acquisizioni. Dal 2008 in poi, però, sia il numero di operazioni di PE sia il loro valore aggregato è calato drasticamente. La logica degli acquirenti finanziari specializzati, quali appunto i fondi di PE, è per sua natura molto diversa da quella dei cosiddetti acquirenti strategici (delle imprese cioè industriali e di servizi). L’orizzonte temporale di permanenza è ben definito, tipicamente da tre a cinque anni, dopodichè il target viene rivenduto (in gergo si parla di exit) a un acquirente strategico o a un altro fondo oppure è quotato in Borsa. Non vi è la possibilità di ottenere sinergie. La leva finanziaria, mercato permettendo, è utilizzata in modo aggressivo. L’investimento è valutato esclusivamente in base al ritorno economico-finanziario complessivo – l’indicatore utilizzato è normalmente il tasso di rendimento interno – sino all’exit.
Il ruolo dei fondi di PE è stato spesso oggetto di accese polemiche, per la loro natura di speculatori puri, sino a ricevere il soprannome di cavallette. Il giudizio storico sarà però probabilmente meno drastico. Soprattutto nei primi anni della loro crescita essi hanno contribuito in modo spesso determinante a immettere skill manageriali in imprese medio-piccole sino a quel momento gestite dall’imprenditore-fondatore (oneman band), rendendone possibile l’internazionalizzazione. Mentre comportamenti più perversi, quali lo spolpare finanziariamente (celebre il caso Seat-Pagine Gialle) imprese floride e portarle alla distruzione indebitandole sino all’inverosimile, sono proliferati negli ultimi anni antecedenti la grande crisi, a fronte dell’enorme espansione del numero e della consistenza dei fondi. Con la grande crisi, e con le conseguenti difficoltà nelle operazioni di exit, il comparto ha subito una significativa contrazione. Parallelamente sono entrati in gioco, come nuovi player, i fondi sovrani (sovreign wealth funds) di Paesi – quali la Norvegia e quelli del Medio Oriente – ricchi di risorse naturali: passando dal ruolo tradizionale di investitori passivi (limited partners) nei fondi di PE a quello di acquirenti in proprio (direct investment). Il fondo sovrano del Qatar (QIA) ha ad esempio acquistato negli ultimi mesi sia i resort della Costa Smeralda sia la casa di moda Valentino, in exit rispettivamente da Colony Capital e Permira.
La logica degli acquirenti strategici, come meglio si vedrà nel seguito, è invece solitamente di lungo periodo e una parte significativa del valore atteso deriva dalle sinergie, nei costi e/o nei ricavi. Ferma restando anche in questo caso la necessità di un’analisi del ritorno finanziario del deal: non basata però sul presupposto di un exit a medio-breve termine, ma sul prolungarsi – su un orizzonte temporale lungo – dei vantaggi derivanti dalle sinergie. Un caso ibrido si ha quando l’impresa acquirente appartiene a un fondo di PE, che è anche il finanziatore del deal: l’impresa, e in particolare il suo management, è interessata alla creazione di valore derivante dalle sinergie; il fondo rimane interessato al tasso di rendimento interno complessivo, che può risentire positivamente di tale creazione di valore.
La tipologia del target
L’impresa oggetto dell’acquisizione può essere, in diversi casi, molto giovane – ovvero una start-up – appetibile per il potenziale di crescita, per l’importanza dei brevetti e/o del know-how di cui dispone, per la rinomanza di cui già gode. In generale, l’acquisizione di start-up a elevato livello di innovazione ha acquisito un peso molto rilevante in tutti quei comparti che hanno imboccato – in misura più o meno ampia ed esclusiva – la strada della open innovation: ad esempio nell’ICT e nel comparto farmaceutico, ove molte delle idee innovative nascono nell’ambito di start-up che (quando non si quotano) spesso si vendono al miglior offerente.
Nell’ambito ICT sono ben note alcune acquisizioni recenti e meno recenti. Facebook ha ad esempio acquisito Instagram, che si stava conquistando un’ampia popolarità sulla rete. Apple in precedenza aveva acquisito Siri, per utilizzare le sue competenze in termini di riconoscimento della voce nell’iPhone, e Google Android, per creare il sistema operativo per smartphone più diffuso. E ancor prima Google aveva acquisito YouTube, per potenziare la propria offerta di servizi o forse per sbarrare l’acquisto a qualche grande competitore. Il 2012 ha visto molte acquisizioni di giovani società operanti nei comparti più innovativi del software. IBM ha acquisito per 1,3 miliardi di dollari Kenexa, che produce “cloud-based software designed to help companies recruit and manage talent through online social networking, collaboration and consulting tools“. Oracle ha acquisito Taleo e SAP SuccessFactors (rispettivamente per 1,9 e 3,4 miliardi di dollari), che ambedue offrono servizi di “cloud-based recruitment and talent management”. La cinese Lenovo, secondo produttore al mondo di PC, ha a sua volta acquisito la statunitense Stoneware per espandere i servizi che permettono ai clienti di collegare direttamente i diversi device sulla rete.
L’impresa target può essere viceversa già matura, con un forte brand e con una presenza consolidata sul mercato. Il valore in questo caso è dato dalla marginalità, dal potenziale di riduzione dei costi consolidati (cost synergies) e dall’opportunità di crescita del fatturato (revenue synergies).
Tra i casi storici più famosi: l’acquisizione da parte di Procter & Gamble di Gillette, allo scopo di creare un gruppo – operante nei prodotti di largo consumo di marca – in grado di fronteggiare la crescita dimensionale della distribuzione (sono ben 24 i brand nel gruppo che fatturano più di 1 miliardo di dollari all’anno); l’acquisizione da parte di Lenovo del business dei PC dell’IBM, per rafforzare la propria quota di mercato (è ora il numero due mondiale), per entrare nei mercati più sofisticati statunitense ed europeo, per rafforzare le proprie competenze e migliorare la qualità. Tra i casi in dirittura d’arrivo più recenti l’acquisizione di Xstrata da parte di Glencore, nel comparto delle materie prime minerarie, che mira a costituire un complesso da 80 miliardi di dollari di fatturato.
L’acquisizione può riguardare uno specifico ramo d’impresa, che viene scorporato e venduto come unità a se stante. In taluni casi lo scorporo è meramente virtuale, perché il ramo di impresa è già giuridicamente configurato come entità giuridica autonoma (ancorchè sotto il completo controllo della holding venditrice).
La recente acquisizione da parte del Gruppo Campari – per 415 milioni di dollari – dello “spirits business” della Lascelles DeMercado (conglomerata quotata alla borsa giamaicana) entra in questa categoria. Per il Gruppo Campari, che ha fatto circa 20 acquisizioni a partire dal 1995, si tratta del terzo più importante deal dopo quelli di Wild Turkey nel 2009 e di Skyy nel 2002 (575 e 440 milioni di dollari rispettivamente).
Alla diversa posizione nel ciclo di vita corrisponde molto spesso – anche se non sempre – il diverso assetto societario. Solitamente le start-up sono imprese non quotate – in gergo private (come contrapposto a public) company – con un novero di azionisti limitato: spesso composto dai fondatori e dai fondi di venture capital che hanno finanziato la fase di ovvio, con stock option per chi gioca ruoli importanti all’interno dell’impresa. Mentre le imprese target mature sono spesso, anche se non sempre, quotate in borsa (public).
In taluni casi (come in quello di Gillette acquisita da Procter & Gamble) la platea degli azionisti è molto ampia; in altri vi è un azionista di controllo; in altri ancora vi sono azionisti (come il fondo sovrano QIA del Qatar in Xstrata) comunque in grado di condizionare con il peso della propria quota il successo del deal (nella fattispecie quello con Glencore). In generale l’acquisizione di un’impresa quotata si presenta più complessa, sia per la (predetta) molteplicità degli azionisti, sia perché devono essere rispettate le regole dell’OPA (Operazione Pubblica di Acquisto), fissate dal legislatore e dalle authority competenti (in Italia dalla CONSOB). Un’acquisizione di impresa matura non quotata è stata quella – nel novembre 2011 – di Brioni (quasi 250 milioni di dollari di fatturato) da parte di PPR (luxury group francese proprietario anche di Gucci e Bottega Veneta), per una cifra prossima secondo gli analisti a 450 milioni di dollari.
L’obiettivo del deal
Il deal ha un obiettivo meramente finanziario quando l’acquirente è un fondo specializzato (a meno che non si tratti di M&A fra società di gestione dei fondi), mentre ha in generale un obiettivo strategico quando l’acquirente è una impresa industriale e/o di servizi. L’obiettivo strategico dell’acquirente può essere di natura diversa. In particolare, si possono individuare quattro grandi tipologie:
- la diversificazione in grande del portafoglio, tramite l’entrata in settori strutturalmente diversi, più o meno sinergici rispetto al/ai core business dell’acquirente;
- la diversificazione in piccolo (in gergo proximity) del portafoglio, tramite l’acquisizione di business prossimi e fortemente complementari a quelli dell’acquirente;
- l’integrazione a monte o a valle, tramite l’acquisizione di fornitori (backward integration) o di clienti (forward integration);
- il consolidamento della posizione competitiva, tramite l’acquisto di concorrenti.
La diversificazione in grande è tipica delle imprese conglomerali come General Electric, ma può essere adottata anche da imprese che vedono il loro core business in pericolo: celebre il caso di Philip Morris che, all’intensificarsi della guerra contro il tabacco, utilizzò i consistenti utili provenienti dallo stesso per acquisire leader mondiali dell’alimentare come General Foods e Kraft. Facebook che compra Instagram, Oracle che compra PeopleSoft, Google che compra YouTube, sono casi di diversificazione in piccolo: volti, attraverso l’incorporazione nella propria offerta dei servizi acquisiti, a fidelizzare maggiormente i propri clienti e ad attirarne possibilmente di nuovi. Un esempio di integrazione a valle è l’acquisizione effettuata nel 2009, da parte di Luxottica, del 57% di Multiopticas Internacional (470 negozi in quattro Paesi del Sud America), allo scopo di rafforzare il suo potere di mercato – attraverso la maggiore vicinanza al cliente finale – in un’area in forte sviluppo. Lo stesso obiettivo strategico aveva portato in precedenza all’acquisizione di catene distributive negli Stati Uniti e in Cina. L’acquisto di imprese concorrenti, infine, può mirare a un aumento (antitrust permettendo) della quota di mercato domestico o può essere finalizzato, in un contesto di competizione più globale, all’entrata in nuovi Paesi: ad esempio la AB InBev (nata nel 2004 dalla fusione della belga Interbrew con la brasiliana AmBev), attualmente leader mondiale nel settore della birra con una quota del 25 per cento circa, ha acquisito nel 2008 la statunitense Anheuser Busch per 52 miliardi di dollari e ha completato nel 2012 l’acquisizione della messicana Modelo (famosa per il marchio Corona), pagando 19 miliardi per il restante 50 per cento.
Un discorso a parte meriterebbero le joint venture (JVs), in cui due partner decidono di mettere insieme le proprie risorse per creare un nuovo business: attraverso meri accordi contrattuali o creando una legal entity separata. La difficoltà della convivenza rende però piuttosto elevato il tasso di mortalità delle JVs.
È il caso della (relativamente) recente JV tra Swatch e Tiffany, nata con l’obiettivo di commercializzare – tramite Tiffany – una serie ad hoc di orologi prodotti da Swatch e seguita, dopo la sua morte, da una vera e propria litigation con cause legali incrociate.
La caratterizzazione geografica dell’operazione
Sebbene ancor oggi un numero considerevole di acquisizioni si svolga all’interno del mondo tradizionalmente più avanzato (Stati Uniti, Europa e Giappone), negli ultimi anni si è sviluppato un trend crescente di operazioni che hanno come baricentro i Paesi di crescita recente – quali i BRIC (nel cui ambito la Cina è diventata la seconda economia del mondo alle spalle degli Stati Uniti e il Brasile la settima superando l’Italia) – o in via di sviluppo, e in particolare il continente asiatico. Questi deal possono essere ovviamente suddivisi, a loro volta, in tre sottocategorie distinte:
- l’acquirente è un’impresa del primo gruppo e il “target” del secondo: le motivazioni principali sono usualmente la dimensione e/o il tasso di crescita del mercato ove opera il target;
- l’acquirente viceversa appartiene a un Paese di crescita recente o emergente e il “target” a uno sviluppato: le motivazioni più ricorrenti sono l’accesso a tecnologie avanzate e l’aggiunta di brand prestigiosi al proprio portafoglio;
- sia l’acquirente sia il “target” fanno capo a un Paese del secondo gruppo: le operazioni sono molto spesso cross-border, ma quasi sempre all’interno di una specifica macro-area geografica (Asia, Est Europa, Sud America…).
Nel corso del 2011, ad esempio, la Nestlé ha investito in due aziende cinesi del settore alimentare – Yinlu e Hsu Fu Chi – acquisendone in entrambi i casi una quota del 60 per cento, rispettivamente per quasi un miliardo di dollari e per oltre due. Yinlu, che può vantare una vasta gamma di prodotti di successo (tra cui latte di pistacchio e riso precotto in scatola), era da tempo legata a Nestlé per la coproduzione del Nescafé destinato al mercato cinese. Mentre Hsu Fu Chi è una impresa leader del settore dolciario, specializzata nella produzione di caramelle. La cinese Sany – multinazionale del settore dei macchinari per costruzione (gru, escavatori..) con un fatturato 2011 di oltre 12 miliardi di dollari – ha investito a sua volta $525 milioni per il controllo della tedesca Putzmeister: un’impresa leader nella produzione di concrete pumps colpita dalla crisi mondiale dopo aver superato nel 2007 il miliardo di euro di fatturato. La cinese Bright Food (interamente posseduta dallo stato) – seconda impresa del comparto alimentare in Cina con oltre 7 miliardi di dollari di fatturato nel 2011 – ha acquisito a sua volta dal fondo di private equity Lion Capital, per 720 milioni di sterline, il 60 per cento dell’inglese Weetabix, player famosissimo nel mercato dei cereali, che porta in dote una rete di vendita che copre oltre 80 Paesi.
Le acquisizioni creano sempre valore?
Si è visto nell’introduzione che le acquisizioni rappresentano uno dei due principali strumenti – accanto agli investimenti cosiddetti organici effettuati all’interno – di cui l’impresa dispone per il proprio sviluppo. E ovviamente, come ci sono investimenti organici che creano valore e altri che lo distruggono, lo stesso può dirsi per le acquisizioni. Si sono visti prevalentemente nel testo esempi di imprese che hanno effettuato acquisizioni di successo, ma la maggior parte degli osservatori (consulting firm, business school, etc.) concorda sul fatto che più della metà delle acquisizioni distrugge valore invece che crearlo. Le cause di insuccesso possono essere diverse: il prezzo pagato dall’acquirente può risultare ex-post eccessivo, l’apporto di know-how può verificarsi di interesse scarso o nullo rispetto alle aspettative, la fase di integrazione – che comporta la fusione di culture di impresa talora molto distanti – può risultare ardua e rendere impossibile il raggiungimento delle sinergie attese. Non sempre la distruzione di valore è facilmente visibile, ma lo è – e per giunta quantificabile – quando il target è oggetto di rivendita o quando l’acquirente è costretto a una massiccia svalutazione nel bilancio.
Il Monte dei Paschi di Siena soffre tuttora ad esempio per il prezzo di 9 miliardi di euro pagato per Antonveneta poco prima dello scoppio della grande crisi, rivelatosi ex-post di gran lunga eccessivo: l’intera banca, attualmente, vale 2,86 miliardi. Microsoft, che viceversa continua a essere un’impresa molto profittevole, ha dovuto di recente effettuare una svalutazione di 6,2 miliardi di dollari relativamente all’acquisizione (la più costosa affrontata fino ad ora) – effettuata nel 2007 per 6,3 miliardi – di Aquantive, operante nell’online advertising.