Il software open source è gratuito, ma renderlo produttivo in un’azienda è un lavoro a valore aggiunto, un business per molti, tra cui SUSE, il principale specialista Linux europeo e il più longevo (è nato nel 1992 in Germania). Longevo ma anche in salute: nel 2017 il suo fatturato è cresciuto del 21%, ed è nel pieno di un tour di 80 eventi in tutto il mondo – SUSE Expert Days 2018 – con due tappe anche in Italia.
In quella di Milano in particolare il team italiano di SUSE ha fatto il punto, con sessioni di scenario e tecniche, sull’offerta e sulle sue linee di evoluzione. «Il motto “Open. Redefined” riassume il nostro approccio all’open source. Open significa anche apertura a partner e community: non vogliamo vincolare i clienti su un solo fornitore», ha spiegato Carlo Baffè, Business Development Manager di SUSE, aprendo l’evento, che infatti ha visto anche interventi di diversi partner, tra cui Intel e Microsoft.
La trasformazione digitale sta rivoluzionando tutti i settori di business, e l’infrastruttura IT deve rispondere facilitando l’innovazione, e nel contempo mantenendosi efficiente e preservando gli investimenti già fatti. Molte tecnologie aiutano a rispondere a queste sfide, e il movimento open source è quello che più traina lo sviluppo e crea innovazione, ha continuato Baffè: vent’anni fa i progetti erano qualche centinaio, oggi sono milioni.
Ma come individuare i più adatti alla singola impresa? E come tradurli in soluzioni con i requisiti aziendali di sicurezza, stabilità, e supporto a lungo termine, capaci di inserirsi nello scenario IT esistente? «La missione di SUSE è aiutare le aziende su tutti questi punti. Abbiamo iniziato dal sistema operativo, Linux Enterprise Server, poi abbiamo ampliato alla gestione con SUSE Manager, alla SDI (Software Defined Infrastructure), e all’Application Delivery, su cui lavoriamo da un anno, con un approccio basato su microservizi e container».
Container e microservizi per favorire DevOps, aggiornamenti e scalabilità
Tema quest’ultimo poi approfondito da Flavio Castelli: «I container sono una forma di virtualizzazione “leggera”, usano meno risorse delle macchine virtuali, e quindi favoriscono diversi trend: il ciclo continuo DevOps di sviluppo applicativo, delivery e feedback, lo sviluppo di cloud native app, la trasformazione delle applicazioni da “monoliti” a microservizi».
I microservizi sono i “componenti Lego” delle applicazioni: ciascuno è fortemente specializzato, fa una sola cosa e ha un suo ciclo di vita. «Se l’applicazione è monolitica e ha un picco di domanda, posso solo scalarla tutta. Se è a microservizi, il picco può interessarne solo alcuni, e posso scalare solo quelli. Stesso discorso per gli aggiornamenti».
Per questo i container sono sempre più diffusi: per Gartner nel 2020 più di metà delle organizzazioni globali li userà, oggi siamo al 20%. «Ma per gestirli ci vuole una piattaforma: perciò è nata SUSE Caas (Container-as-a-Service) Platform, che presto sarà alla versione 3. I componenti chiave sono 3: l’orchestrazione dei container basata su Kubernetes, uno dei migliori progetti open source in circolazione, la configurazione automatizzata – installazione, aggiornamento, ecc. – basata su Salt, e MicroOS, sistema operativo scritto da SUSE proprio per gestire microservizi e container».
Se la CaaS Platform e il Platform-as-a-Service formano l’approccio Application Delivery di SUSE, l’altro pilastro dell’offerta è la SDI, basata su OpenStack Cloud ed Enterprise Storage, con SUSE Linux Enterprise Server come sistema operativo.
Software-Defined Infrastructure, da OpenStack a Enterprise Storage
«SUSE OpenStack Cloud automatizza la creazione e gestione di cloud privati», ha spiegato Simon Briggs di SUSE. «OpenStack è la principale piattaforma open per l’IaaS: nella vasta offerta sul mercato, SUSE per differenziarsi punta sulle metodologie di installazione, sull’integrazione con il resto del portafoglio e sull’esperienza di molti anni».
«Crediamo fortemente nella definizione via software anche dello storage», ha aggiunto Alessandro Renna, e SUSE Enterprise Storage punta a superare i punti deboli delle soluzioni tradizionali, come scarsa scalabilità e alti costi. «Al cuore c’è il progetto open source Ceph, basato sul concetto di object store: la scalabilità è praticamente infinita, come le tipologie di dati gestibili, con qualsiasi piattaforma hardware, sempre mantenendo un ponte tra infrastrutture tradizionali e cloud».
Concetto ribadito infine anche da Kai Dupke, che ha spiegato le principali innovazioni nella prossima versione 15 di SUSE Linux Enterprise Server. «Il sistema operativo del futuro sarà sempre più modulare, addirittura personalizzato, e dovrà saper gestire sia le infrastrutture tradizionali che quelle software-defined e a container».