Diana Saraceni è cofondatrice e General Partner di 360°
Capital Partners, società di Venture Capital che investe in
aziende dai contenuti innovativi su tutto il territorio europeo,
in particolare in Italia e Francia. Il team di professionisti che
ci lavora ha investito in più di 70 aziende, seguendole poi
nella crescita e al momento dell’exit. Attualmente
la società gestisce un fondo superiore ai 100 milioni di
euro e valuta ogni anno circa 1200 opportunità di
investimento.
Laureata in ingegneria e con un MBA conseguito alla Luiss di
Roma, Diana Saraceni è entrata nel mondo del Venture Capital
oltre 10 anni fa, e in precedenza ha lavorato alla Lazard
Investment Banking – dove faceva parte del Technology Team e
seguiva principalmente transazioni di fusione e acquisizione e
operazioni di prima quotazione – e come consulente in A.T.
Kearney a Milano e Londra. Si è occupata e si occupa di seguire
aziende del settore del green, dei dispositivi medici,
dell’ICT e del retail: fra queste le italiane CO.Import,
Mutuionline, Electro Power Systems, Biolase e NSE.
Lavorando sia in Italia sia in Francia, Diana Saraceni conosce
bene le differenze fra le due realtà: «La Francia è il
Paese europeo in cui il Venture Capital è più sviluppato –
spiega – e questo perchè c’è stata una precisa volontà
politica, che ha per esempio introdotto l’obbligo per le
assicurazioni e le banche ad investire nei fondi». Un
intervento forte, che era necessario per vincere i timori delle
istituzioni finanziarie verso questa categoria di asset, che
spaventano perchè il rischio sul singolo investimento è alto ed
è difficile percepire quanto sia moderato invece il rischio a
livello complessivo di fondo di investimento; rimane nella mente
degli investitori che molte start up falliscono e comunque
spaventa che i ritorni siano nel lungo periodo. Il bilancio della
Francia appare oggi molto positivo: «Questa spinta ha dato
possibilità a molti imprenditori di sviluppare progetti
interessanti, ha aumentato il numero di imprese, lo sviluppo
dell’industria, dell’innovazione e
dell’occupazione».
Secondo Diana Saraceni, se il mercato del Venture Capital
francese è oggi forse troppo competitivo, quello italiano è
ancora troppo piccolo: «qui è molto più difficile
chiudere un deal». Cosa manca dunque in Italia per
accelerare la nascita di start up? «Per prima cosa la
cultura. Gli studenti universitari generalmente non sanno come si
avvia un’azienda e i pochi che lo sanno difficilmente
conoscono i fondi di Venture Capital, ma solo quelli di buy-out,
ovvero quelli che comprano aziende già avviate. Il
concetto di imprenditorialità in Italia gode di una reputazione
negativa, mentre nella Silicon Valley chi apre una start
up è visto come un eroe nazionale e chi ci va a lavorare accetta
volentieri uno stipendio più basso e una buona dose di rischio
pur di possedere una parte dell’azienda, di costruire
qualcosa. La prospettiva di un progetto forse vincente, che
potrebbe permettergli di diventare ricco e di successo, li
esalta, mentre in Italia chi cambia lavoro per una start up pensa
piuttosto al rischio di fallire e ai benefit che sta lasciando,
come l’auto aziendale». Messaggi che vanno dati ai
più giovani, perchè lo spririto imprenditoriale può davvero
essere la risposta all’assenza di sbocchi lavorativi dei
nostri giorni.