L’industria della trasformazione chimica è impegnata in un complesso processo di evoluzione guidato dalle nuove tecnologie. Un processo che coinvolge innanzitutto i due estremi della filiera: da una parte il versante supplier, dall’altra i punti di contatto con clienti e consumatori finali. In mezzo c’è tutto quel complesso di operazioni, macchinari, sistemi di controllo e di sicurezza che grazie al digitale sta intraprendendo la via dell’Industry 4.0, un percorso obbligato se si vuole ottimizzare i flussi di input e output e scongiurare il pericolo di essere disintermediati da nuovi player. A questi obiettivi si aggiunge la possibilità di creare nuovo valore coinvolgendo i clienti in una relazione che va oltre il semplice meccanismo di fidelizzazione: i prodotti e i servizi offerti, aumentati grazie all’introduzione di app e funzionalità che amplificano la user experience, permettono di incamerare i dati generati dall’esperienza per abilitare l’analisi delle caratteristiche e delle abitudini dei consumatori o delle aziende clienti, avviando un circolo virtuoso da cui tutti gli attori possono trarre benefici.
Una premessa: serve una precisa data strategy
«Per fare questo, però, è prima di tutto indispensabile dotarsi di una precisa data strategy», ha spiegato Stefano Maio, Country Leader Business Analytics di Oracle Italia, parlando in occasione del workshop ‘Chemistry 4.0: eventually, less regulation and more innovation‘, organizzato a Milano a fine giugno da Federchimica. Durante la convention si sono confrontati non solo addetti ai lavori provenienti dai verticali più tradizionali del settore chimico, ma anche professionisti del marketing e delle vendite di comparti che lavorano a ridosso delle attività di trasformazione vere e proprie. «Molti clienti mi chiedono consulenza per passare dall’essere un’azienda di prodotto all’essere un’azienda di servizi», ha continuato Maio. «L’ostacolo più grande per avviare questa transizione è che attualmente le imprese hanno a che fare coi dati più in termini di ‘dovere’, quasi fosse un semplice adempimento o addirittura un male necessario, e non di ‘piacere’ legato all’opportunità di creare business in modo innovativo. Gli analytics aiutano invece l’impresa a elaborare nuovi modelli facendo leva sulla qualità del prodotto, sull’asset tracking e su piattaforme di vendita più efficaci». Naturalmente c’è anche il rovescio della medaglia: a maggiori opportunità corrisponde anche una maggiore complessità nella gestione delle attività. «E per questo alle tecnologie bisogna aggiungere anche competenze, soprattutto per quanto riguarda il tema delle frodi e della sicurezza», ha precisato il manager di Oracle.
Dalla cosmetica all’agricoltura, nuovi modi di interagire con il mercato
Sembra scontato, ma per cominciare a sfruttare i dati dei clienti bisogna prima di tutto procurarseli. Ma il settore chimico, e in particolare in quello della cosmetica, ha lavorato per anni senza avere la possibilità di allacciare un contatto diretto con il consumatore finale, il cui rapporto è sempre stato mediato dal retail e in particolare dalle farmacie. Per superare questo divario, il marchio La Roche-Posay, del gruppo L’Oréal, è ricorso a una campagna globale che ha fatto coincidere gli obiettivi di brand awareness che aveva il marketing con la sensibilizzazione sui temi della protezione della pelle e della prevenzione del melanoma. L’ha raccontato Roberta Vinciguerra, Digital & Communication Director Cosmetique Active del gruppo L’Oréal, spiegando in che modo la sua divisione ha sfruttato la condivisione dei dati per entrare in contatto col consumatore finale.
La prima fase dell’operazione ha riguardato la creazione di una vera e propria community, quella degli Skin Checker, ovvero di persone desiderose di comprendere meglio quali possono essere i comportamenti da adottare per prevenire disturbi della pelle e di imparare a riconoscere i segnali che potrebbero evidenziare la presenza di un melanoma. «Il tutto viene reso possibile su una piattaforma, SaveYourSkin, creata sul nostro sito, attraverso la quale i clienti effettuano un semplice test che permette loro di entrare nella community, ad oggi composta da oltre 100 milioni di membri in tutto il mondo», ha spiegato Vinciguerra. Alla fine del test si scarica un attestato e soprattutto si ha la facoltà di lasciare i propri dati per ricevere aggiornamenti sul tema e, naturalmente, sui prodotti La Roche-Posay. Il passo successivo è consistito nell’entrare letteralmente a contatto con la pelle del cliente, grazie all’UV Patch, un cerotto fotosensibile che una volta applicato sull’epidermide, rivela il grado di esposizione alla luce solare e, tramite un’app installata sullo smartphone, suggerisce i comportamenti da adottare. «Grazie a UV Patch il 63% dei nostri clienti ha dichiarato di essersi scottato meno», ha precisato Vinciguerra. E, ça va sans dire, il 37% ha utilizzato più crema solare. Senza contare che i dati raccolti potranno essere utilizzati per generare insight sul mercato e sulle abitudini dei consumatori.
Dalla cosmetica all’agricoltura il passo è breve, se c’è di mezzo la digital transformation. Piero Ciriani, Responsabile Nutrizione Sementi di Sipcam Italia, ha condiviso con la platea del workshop la strategia che la sua azienda, multinazionale per l’appunto specializzata nella distribuzione di sementi, sta sviluppando per promuovere la coltivazione di soia sul suolo tricolore, e in particolare in Val Padana. «Riusciremmo così a ridurre la nostra dipendenza da importazione, aprendo a un mercato che sta acquistando sempre più valore». Operare questa trasformazione significa convincere i coltivatori non solo ad adottare la soia, ma anche, dovendo affrontare concorrenti di dimensioni colossali, basati soprattutto in Sud America, a fare sistema, costruendo grazie alla conoscenza dell’ambiente e alle tecnologie una filiera efficiente, gestibile con strumenti che permettano di prendere decisioni in real time. «Abbiamo quindi promosso un’associazione che tutelasse questi nuovi interessi e ci siamo avvicinati al mondo dell’IoT (Internet of Things) e al precision farming, dotandoci di un Decision Supporting System (DSS) che ci aiuti a correlare le informazioni relative alle coltivazioni con altri dati, come per esempio quelli relativi al clima, mettendo in ogni caso l’agricoltore al centro di ogni analisi: se è efficiente l’attività dell’agricoltore, lo è anche la filiera. È grazie all’analisi dei dati che la filiera riuscirà poi a gestire gli aspetti più complessi legati ai processi di trasformazione e di tracciabilità».
Ma le risorse finanziarie ci sono?
Il confronto tra le esperienze di L’Oréal e Sipcam evidenzia un importante divario che può pesare in maniera determinante sul successo delle iniziative di digital transformation: se una multinazionale come la società di Vinciguerra può contare su risorse proprie per attuare iniziative di respiro globale come la la campagna Skin Checker, piccole imprese agricole che vogliono aderire alla piattaforma proposta da Sipcam sono chiamate a uno sforzo che spesso non possono sostenere da sole. Per non parlare delle startup che potrebbero contribuire col proprio know how a favorire l’integrazione tecnologica degli analytics: dove si trovano le risorse per finanziare l’evoluzione richiesta dal mercato? C’è chi come Roberto Fantino, anche lui protagonista della tavola rotonda, ha catalizzato decenni di esperienze internazionali, consulenziali e accademiche, nell’ambito digitale creando organizzazioni ben inserite in network consolidati. Ma non tutti possono dare vita a società come Big Data Technologies, quella per l’appunto creata da Fantino.
Negli Stati Uniti si fa largo ricorso al venture capital, che come è noto è invece in Italia una modalità molto poco diffusa per sostenere le giovani imprese. Anzi, le società come Primomiglio SGR, fondata da Gianluca Dettori e sostenitrice di iniziative come Cortilia, Sardex, Brandon Ferrari e Iubenda, sono perle rare. Dettori l’ha detto senza mezzi termini parlando durante la convention, e spiegando anche il perché: «I venture capitalist hanno un’altissima tolleranza al rischio, ma sono intolleranti alla non scalabilità delle soluzioni». Il che significa che o si punta da subito all’industrializzazione di un’idea (come del resto succede in America) o è meglio cercare finanziamenti altrove.
In banca, per esempio, dove si stanno sviluppando nuovi metodi per valutare la concessione del credito alle startup. Stefano Melazzini, Responsabile Settori Specialistici Mediocredito Italiano di Intesa Sanpaolo, ha ammesso che il sistema creditizio tradizionale fa fatica a finanziare imprese che non possono contare su asset che fungano da garanzia per i prestiti, «ma da qualche anno si sta muovendo qualcosa. Io sono responsabile di una struttura che prova ad andare oltre gli elementi quantitativi nel risk assessment, valutando per esempio elementi qualitativi come la Web reputation di un’impresa e costruendo flussi di cassa virtuale per i quali ipotizziamo un debito sostenibile». I settori più promettenti per Melazzini? Le energie rinnovabili, il turismo e tutto ciò che attiene all’Industry 4.0.